Lutero e la sua Theologia crucis, origine di tante lacerazioni
La “Teologia della croce” di Lutero è fondamentale per capire ogni affermazione dell’ex monaco. Il quale si erse come difensore della conoscenza rivelata contro quella filosofica, della fede contro la ragione, della grazia contro le opere. Invece di armoniche sintesi, teorizzò contrapposizioni artificiose, con conseguenze nocive.
L'accenno fatto nell'ultimo articolo relativamente allo zelo de-filosofizzante di Lutero dev'essere ripreso. Non a torto, alcuni studiosi, tra cui spiccano il luterano Walter von Loewenich (1903-1992) e mons. Brunero Gherardini (1925-2017), hanno ritrovato nella Theologia crucis (Teologia della croce) non solo l'oggetto, ma soprattutto il modo con cui Lutero ha fatto teologia e dunque la prospettiva da cui comprendere ogni sua affermazione.
Cerchiamo di cogliere il contesto in cui matura la Theologia crucis, poi i suoi aspetti fondamentali e quindi proporne una valutazione. Il XVI secolo è stato contrassegnato dall'invasione dell'Umanesimo nella vita e nella teologia cristiane, con una tale esaltazione dell'umano da giungere, in certi casi, alla dissoluzione del vero senso della Redenzione e della grazia. In ambito teologico, si poteva osservare un fastidioso razionalismo che non di rado finiva per ridurre le verità della fede a mere deduzioni logiche da premesse rivelate, perdendo il contatto con le fonti vive della Rivelazione, a cui si faceva ricorso come mera conferma finale di un procedimento che in realtà si era svolto nei confini della sola ratio, divenendo di fatto la “ciliegina sulla torta” ad un sistema filosofico autosufficiente.
A finire sotto gli strali di Lutero non furono però solo gli eccessi di questa tendenza teologica: egli si erse come difensore della conoscenza rivelata contro la conoscenza filosofica, della fede contro la ragione, della grazia contro le opere. La croce di Cristo, secondo Lutero, è il modo di procedere di Dio che umilia e annienta ogni altra prospettiva; tutto l'uomo è sotto il segno del peccato e tutto in lui deve morire per poter essere raggiunto dalla croce e salvato. Anche la conoscenza di Dio non può che vivere sotto questo segno: affermando il principio del sub contraria specie, secondo il quale Dio non può essere colto in riferimento alla creazione e alla ragione, ma solo come il Deus absconditus della croce, ogni conoscenza naturale di Lui finisce per essere considerata “sapienza mondana”, che non solo non serve a nulla quanto alla fede, ma si pone persino come sua contraffazione. La conoscenza di Dio e il rapporto con Dio vivono pertanto sotto il segno del paradosso, che squalifica ogni pretesa “via naturale”, la umilia disorientandola.
Un famoso passo del Commento alla Lettera ai Romani rende bene l'idea: «Io, per lo meno, cerco di dover rendere al Signore questo ossequio: devo sbraitare contro la filosofia ed esortare alla Sacra Scrittura! […] dopo essermi logorato molti anni in tali problemi, e dopo aver parimenti provato e ascoltato molti maestri, vedo che si tratta di uno studio che è vanità e perdizione. Perciò esorto tutti voi, per quanto posso: concludete in fretta questi studi, avendo cura soltanto di non consolidarli e di non difenderli, ma di trattarli piuttosto come cattive arti che apprendiamo all'unico scopo di distruggerle, come errori che impariamo soltanto per correggerli. Così dev'essere anche con questi studi: dobbiamo compierli soltanto per ripudiarli; o per lo meno, per apprendere il modo di parlare di coloro con cui abbiamo necessariamente a che fare. È ormai tempo che ci consacriamo ad altri studi e impariamo Gesù Cristo e “questi crocifisso”». Lutero inveisce contro i sapienti e i teologi, mettendo davanti la più alta sapienza della Croce, che costoro invece non comprendono e da cui si sottraggono preferendo la “prudenza della carne”.
In effetti, tutta la riflessione teologica di Lutero porta il segno di questa morte dell'umano di fronte al Dio che salva; la teologia dell'incarnazione e della croce sostenuta da Lutero suona come la squalifica di ogni certezza razionale di fronte al mistero di Dio, di ogni salvezza che venga dalle opere (si pensi alla sua condanna dei voti monastici), di ogni possibile autentica santificazione dell'uomo. La kenosi del Verbo significa per Lutero una totale divaricazione tra grazia e natura, non perché quest'ultima sia negata, ma perché essa rimane e deve rimanere nell'orizzonte puramente mondano, senza sconfinare nella sfera della Rivelazione, nella quale non fa altro che inquinare e distorcere. L'orizzonte luterano pone fede e ragione, teologia e filosofia, grazia e libertà in un rapporto antitetico, la cui “convivenza” diviene possibile solo in virtù di una netta separazione dei campi; separazione che garantirebbe la purezza del Vangelo, custodendolo da ogni contaminazione umana. Non è difficile comprendere che ci troviamo alle radici teologiche di ogni forma di secolarizzazione.
Non pochi vescovi, teologi e laici cattolici oggi sottoscriverebbero – e con non minore boria di quella di cui Lutero diede mostra – questa posizione, in nome di una deellenizzazione ritenuta necessaria per una maggior fedeltà al Vangelo. Una provocazione, quella di Lutero, che ha anche certamente il suo aspetto di utilità in quei frangenti della storia della Chiesa, non escluso il nostro, in cui sia necessario risvegliare nei cristiani la consapevolezza che al di fuori di Gesù Cristo non c'è salvezza e che l'autosalvezza proposta dal mondo è condanna. La tentazione di un cristianesimo dei valori, di una salvezza puramente morale, di una fede in “ragionevole” collaborazione con la mentalità del mondo dev'essere sempre rintuzzata con la predicazione di Gesù Cristo crocifisso, «scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani» (1Cor 1, 23).
D'altra parte, però, non possiamo spingere questa posizione fino ad arrivare a “scindere Dio”, contrapponendo l'opera della creazione all'opera della redenzione; non possiamo dividere ciò che Dio ha unito, pensando erroneamente che quanto più purifichiamo la fede dalla ragione, la teologia dalla filosofia, tanto più ci avviciniamo alla purezza di un Vangelo sine glossa. Non possiamo infatti trascurare la grande e fondativa verità che Gesù Cristo crocifisso sia lo stesso Logos eterno fatto carne, per mezzo del quale e ad immagine del quale ogni cosa è stata creata (cf. Col 1, 16), e la cui luce illumina ogni uomo che viene in questo mondo (cf. Gv 1, 9). Non possiamo cioè ignorare che questa continuità tra natura e grazia, tra fede e ragione è stata costituita da Dio e ricostituita, purificandola ed elevandola, con la redenzione. Continuità che, certamente, non deve far perdere di vista la gratuità della redenzione e della giustificazione, così come la trascendenza di Dio da ogni cosa creata. Si tratta di porsi in quella strada che classicamente prende il nome di analogia: né univocità, né equivocità; né immanenza, né assoluta trascendenza; né razionalismo, né fideismo; è la strada che Lutero ha spezzato con i suoi “sola”: sola fide, sola gratia, sola Scriptura.
Come faceva notare padre René Latourelle (1918-2017), «la parola creatrice ha preceduto ed è il fondamento della parola rivelatrice» e «l'una e l'altra hanno come principio la stessa Parola interiore di Dio», il Verbo eterno, appunto. Per cui, concludeva il gesuita, «la rivelazione del Cristo suppone la verità dell'analogia» (Teologia della Rivelazione, Assisi 1986, p. 425). La contrapposizione rivelazione-filosofia, quest'ultima intesa non come sistema filosofico, ma come la ragione umana che attinge il vero, non è affatto richiesta dalla salvaguardia della trascendenza divina, né da una presunta purezza della rivelazione evangelica. Al contrario è Dio stesso ad aver posto la creazione come fondamento della redenzione, la natura come fondamento della grazia, così che l'uomo possa utilizzare la ragione creata per conoscere Dio, e Dio servirsi della ragione umana per farsi conoscere, intrecciando così in modo concretamente inscindibile natura e grazia, fede e ragione, così che la volontà di liberarsi dall'una finisce con lacerare anche l'altra (e viceversa). Lacerazione provocata proprio dall'impostazione luterana, anche quella “rediviva”.
L'errore di Lutero si è mostrato esiziale nelle sue conseguenze, perché di lì a poco, i rapporti di forza saranno rovesciati: saranno filosofi, politici e giuristi ad accogliere l'invito alla “separazione consensuale”, per liberare così il campo della ragione dalla fede, dapprima esiliando la fede dall'ambito della conoscenza della realtà in quello della ragion pratica; poi espellendola anche da lì, con lo scopo di creare un'etica universale puramente naturale. Dal canto suo la ragione, svilita nella sua capacità di conoscere la profondità del reale e di essere nobilitata ed elevata dalla grazia e dalla Rivelazione, percorrerà la misera strada del riduzionismo tecnico-scientifico.
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