La tentazione di Gesù – Il testo del video
Cristo scelse il tipo di vita più conforme al fine dell’Incarnazione. L’annuncio della verità: necessario alla salvezza. Contemplazione e azione insieme. Perché volle essere tentato? E perché dopo il digiuno di 40 giorni e nel deserto? Vediamo le ragioni con l’Aquinate.

Oggi vediamo due questioni della III parte della Somma Teologica che riguardano rispettivamente il tipo di vita in generale scelto dal Signore e la tentazione che Egli ha scelto di subire subito dopo il battesimo nel fiume Giordano. Non vedremo le due questioni per intero, commenteremo solo alcuni articoli che ritengo più importanti.
Iniziamo dall’articolo 1 della quæstio 40. San Tommaso si chiede se il tipo di vita scelto dal Signore fosse adeguato, conveniente. La domanda si pone, perché il Signore non sceglie quel tipo di vita che nella Chiesa viene considerato a ragione come un tipo di vita superiore, cioè la vita contemplativa, ma sceglie una vita molto diversa: vive per trent’anni in una famiglia, dove c’è sicuramente una vita di lavoro, di preghiera, di silenzio, ma anche di relazioni; e poi tre anni di vita apostolica, di predicazione, di miracoli, di viaggi attraverso le zone della Terra Santa.
San Tommaso presenta il principio base per capire la convenienza della scelta di vita del Signore: «Il modo di vivere di Cristo doveva essere quello più conforme al fine dell’Incarnazione» (III, q. 40, a. 1). Cioè, il Signore s’incarna, si fa uomo non per fare una passeggiata di piacere, ma per salvare l’uomo. E la prima cosa che è necessaria per la salvezza dell’uomo è l’annuncio della verità. Per questo il Signore, come dice Tommaso, non doveva nascondersi, almeno non del tutto, non per tutta la sua vita (quando parliamo della predicazione, parliamo di una piccola parte della vita del Signore: tre anni). Quindi non doveva nascondersi, ma manifestarsi. Anzitutto, doveva manifestare la sua persona, quella del Figlio di Dio venuto nella carne; e poi manifestare proprio il fatto, tramite parole di verità, di essere la Verità.
Questo è interessante, perché è un po’ lontano dalla nostra mentalità pensare che la salvezza abbia a che fare con l’annuncio della verità. Siamo passati da un versante razionalista a uno irrazionale; percepiamo la fede più come un sentimento e non consideriamo più che le verità di fede vengono a sanare le ferite dell’ignoranza umana. Eppure san Tommaso ci fa notare che nell’Incarnazione – il cui fine è quello di essere redentiva – c’è precisamente l’annuncio della verità che salva: «La verità vi farà liberi» (Gv 8, 32), dice il Signore.
Secondo elemento: l’Incarnazione avviene per liberare gli uomini dal peccato. Dunque, come dice san Tommaso, il Signore aveva un tipo di vita che gli consentiva di andare in cerca delle pecore perdute della casa d’Israele (cf. Mt 15, 24), e anche di cogliere le primizie dell’evangelizzazione dei pagani che sarà poi praticata dagli apostoli, cioè dell’evangelizzazione di quelli come noi, di coloro che non appartenevano al popolo giudaico.
Ora, questa ricerca, che è quella del Buon Pastore che va alla ricerca della pecora smarrita, ferita, affamata, richiedeva appunto che il Signore avesse una vita che gli consentiva di muoversi, di spostarsi, di avere relazioni con le persone.
Terzo aspetto della finalità dell’Incarnazione: l’Incarnazione avviene perché gli uomini, conoscendo il Signore, il Verbo incarnato, possano accedere a Dio. Cioè, dalla natura umana, visibile, concreta, assunta dal Verbo, possano passare a quelle realtà che invece l’occhio dell’uomo non riesce a vedere, non riesce a percepire, cioè Dio stesso, nella sua invisibilità. E quindi, per farci accedere a Dio, era necessario che Egli infondesse negli uomini la fiducia di avvicinarsi a Lui, vivendo familiarmente tra noi. Dunque, il tipo di vita scelto dal Signore è un tipo di vita che permette agli uomini di accostarsi a Lui con facilità, senza timore, senza difficoltà. È il Dio che si fa vicino all’uomo, perché è venuto non a giudicare il mondo, ma a salvarlo (cf. Gv 12, 47).
Per queste tre ragioni fondamentali legate al fine dell’Incarnazione, era conveniente che il Signore scegliesse quel tipo di vita che di fatto ha scelto.
Vorrei sottolineare due punti che san Tommaso mette in rilievo nelle risposte a due obiezioni. Il primo riguarda un testo molto conosciuto, molto bello, nel quale spiega che, se è pur vero che la vita contemplativa è superiore alla vita attiva, tuttavia c’è una vita che è, potremmo dire, contemplativa-attiva, che a sua volta sorpassa la vita puramente contemplativa; è «la vita attiva con la quale uno, predicando e insegnando, comunica agli altri le verità contemplate» (III, q. 40, a.1, ad 2). Si tratta del famoso principio: contemplata aliis tradere, cioè, trasmettere, comunicare agli altri le verità contemplate.
Dunque, questo tipo di vita non è una vita puramente attiva senza la contemplazione, non è una vita puramente contemplativa senza una dimensione attiva, ma appunto è un’attività che nasce da uno strabordare della contemplazione. Questa comunicazione delle verità non avviene con tecniche di marketing o con strategie sociologiche particolari; è invece il trasmettere ciò di cui si è impregnati nella contemplazione, ciò di cui si è ricolmi, si è fatto esperienza attraverso il rapporto con Dio, la contemplazione delle verità della fede, la contemplazione di Dio.
L’altro aspetto è nella risposta alla terza obiezione in cui san Tommaso si chiede come mai il Signore, in questa sua vita apostolica, si apparti molto spesso dalla folla. E Tommaso dà tre ragioni, che si condensano in una motivazione: la vita del Signore voleva essere esemplare, per la vita dei suoi discepoli, in particolare degli apostoli, di coloro che sarebbero stati poi mandati ad edificare la Chiesa, a predicare la buona novella del Vangelo. Costoro, dice san Tommaso, dovevano imparare dal Signore stesso tre cose: 1) la prima, banale ma non troppo: bisogna anche riposarsi un po’, il corpo ha bisogno di riposo. Il Signore era molto attivo, ma non era uno stacanovista, né voleva che lo fossero i suoi apostoli. C’è una realtà – quella del nostro corpo ma anche della nostra mente – che ci ricorda che non siamo Dio e che abbiamo bisogno di un giusto riposo, senza cadere ovviamente nell’ozio; 2) pregare. Il Signore, con il suo esempio, ci ricorda che non esiste vita apostolica senza preghiera. La preghiera è l’anima della vita apostolica. Ma non è solo l’anima, è anche il fine della vita apostolica, perché il Vangelo viene annunciato per portare gli uomini alla preghiera, quindi al rapporto con Dio; 3) «per insegnarci a fuggire il favore degli uomini», dice Tommaso. Ricordate quando vogliono venire a prendere il Signore per farlo re, perché aveva moltiplicato i pani? Poteva essere molto conveniente avere qualcuno che risolvesse i problemi con dei miracoli, in particolare il problema principale dell’uomo, come campare, come stare al mondo. Il Signore insegna invece a fuggire il favore degli uomini: quindi, non solo a non cercare questo favore, ma ad evitarlo quando viene. Non che il Signore fosse minacciato dalla vanagloria, ma di nuovo lo ha fatto come esempio per noi.
Nella quæstio 41, che cade a fagiolo perché siamo nel tempo di Quaresima, abbiamo le tentazioni del Signore: quaranta giorni di digiuno del Signore, seguiti dall’assalto del demonio che lo tenta. La prima domanda che si pone Tommaso è: era conveniente che il Signore fosse tentato? Qual è la ragione per cui il Signore fu tentato? La prima cosa che san Tommaso ci dice è che il Signore volle essere tentato. A differenza nostra, che siamo tentati e stop, il Signore volle essere tentato. Tutto quello che è accaduto nella vita del Signore è stato per un atto della sua volontà, della sua permissione.
E dunque, perché ha voluto essere tentato? San Tommaso dà quattro ragioni fondamentali, molto importanti anche per la vita concreta. Anzitutto, ricordiamo che i Padri ci tengono a dire che la tentazione del Signore non fu una tentazione come la viviamo noi, dovuta al fomite, al disordine che si è creato in noi, alla concupiscenza che viene in qualche modo a sovvertire l’ordine delle facoltà dell’uomo. Come abbiamo visto quando abbiamo parlato della persona del Signore, in Gesù non c’era il fomite, non c’era la concupiscenza. Dunque, quando si parla della “tentazione del Signore”, bisogna essere molto attenti a ricordare che si tratta di un tentativo di seduzione del demonio. Cioè, c’è il demonio che pone davanti delle attrattive, ma non è una tentazione che invece muove dall’interno a causa del fomite: questo è un chiarimento importante da capire, perché ha delle ricadute sulla persona del Signore; se noi ipotizzassimo che il Signore abbia avvertito, come l’avvertiamo noi, la concupiscenza, cadrebbe tutto il discorso che abbiamo fatto fino adesso e quindi ci sarebbe un problema proprio sulla comprensione del senso dell’Incarnazione del Verbo di Dio.
Adesso vediamo le quattro ragioni per cui il Signore volle essere tentato nel modo che abbiamo appena detto. La prima fu per aiutare noi contro le tentazioni. Bisogna capire bene questo “aiutare noi”. I Padri ci dicono che nella tentazione di Cristo, quindi nella vittoria di Cristo sulla tentazione, tutti i cristiani sono tentati e tutti i cristiani possono ottenere la vittoria. Non è semplicemente un esserci d’aiuto come esempio, che pure c’è ed è importante; ma è anche un fatto della vita del Signore che non appartiene al passato ma che in qualche modo ha la sua efficacia nel presente, si estende nella vita della Chiesa, in particolare in questo tempo che noi viviamo, il tempo della Quaresima, che non a caso viene inaugurato dall’episodio evangelico, nel lezionario della prima domenica di Quaresima, della tentazione del Signore. Dunque, dice san Gregorio Magno, così come con la sua morte Egli ci salva dalla morte, così con la sua tentazione Egli ci salva nella tentazione. Non ci salva dalla tentazione nel senso che non veniamo tentati; la tentazione in questa vita è necessaria – possiamo dire – per la santificazione; ma Gesù vince nelle tentazioni perché anche noi possiamo vincere nella tentazione. Si tratta quindi di qualche cosa di più di un’esemplarità, si tratta di una persistenza del mistero di Cristo tentato e vittorioso nelle sue membra.
La seconda ragione portata da san Tommaso sulla tentazione di Gesù è: «per nostro ammonimento». Che cosa vuol dire? Richiama un testo del libro del Siracide, al cap. 2, 1: «Figlio, se ti presenti per il servizio del Signore, preparati alla tentazione». Che ammonimento ci vuole dare il Signore scegliendo di farsi tentare? Che in questa vita terrena nessuno, per quanto santo o per quanto si ritenga santo, è immune dalla tentazione, per cui mai in questa vita possiamo cessare dalla lotta. Non c’è mai in questa vita un momento nel quale possiamo dire “ho vinto, sono a posto, ho combattuto il mio nemico e non tornerà più”.
Ricordiamo l’episodio evangelico: lo Spirito porta il Signore nel deserto per essere tentato, il demonio viene sconfitto, gli angeli servono il Signore; ma il demonio torna per tentarlo in un modo ancora più pericoloso, proprio nella Passione.
«Terzo, per darci l’esempio». Quale esempio? Come si combatte nella tentazione, come si vince nella tentazione? Il Signore vince in due modalità, che poi sono i due lati della stessa medaglia: 1. opponendo al Maligno la Parola di Dio, che è stata una cosa che i Padri del monachesimo, i Padri del deserto hanno praticato alla lettera, imparando a memoria – una volta si imparava a memoria tutta la Scrittura, come minimo il Salterio – tutto un repertorio di frasi proprio per rintuzzare la tentazione in base alla modalità con cui si presenta, se di scoraggiamento, di vanagloria, di ira, eccetera. 2. Rintuzzando con la parola di Dio, si tagliano immediatamente anche i ponti con il tentatore. Cioè, con il tentatore non si entra mai in dialogo. Cosa vuol dire che non si entra mai in dialogo? Siccome la tentazione compare come un pensiero, un piccolo pensiero, i Padri, proprio sulla scorta dell’esempio del Signore, ci dicono che deve essere immediatamente preso e sfracellato sulla roccia che è Cristo. Cioè, non si segue con il ragionamento quel pensiero che si affaccia, ma immediatamente lo si combatte con la Parola di Dio e si torna a fare quel che si deve fare, si ricorre a Cristo.
«Quarto, per stimolarci ad avere fiducia nella sua misericordia». Noi abbiamo un Salvatore che ha combattuto, sa cos’è la tentazione, sa a cos’è esposta la vita dell’uomo. E in qualche modo questo pensiero, questa realtà ci dà fiducia, anzitutto perché noi non combattiamo da soli, ma combattiamo nel combattimento del Signore; e poi perché sappiamo che Egli ci comprende in questa situazione. Non a caso nella preghiera che il Signore ha insegnato ai suoi discepoli c’è proprio questa invocazione: «non ci indurre in tentazione», che non significa “non permettere la tentazione” e neanche “non abbandonarci alla tentazione”, bensì: non permettere che cadiamo nella tentazione, che cadiamo dentro nella prova fino a venir meno.
Abbiamo dunque presentato le ragioni di convenienza per cui il Signore ha voluto essere tentato. Nell’art. 2 della quæstio 41 san Tommaso si domanda invece: perché nel deserto? E dà due ragioni molto belle. La prima: «Cristo uscì nel deserto come in un campo di battaglia per esservi tentato dal diavolo» (III, q. 41, a. 2). Cioè, per i Padri è chiarissimo che la solitudine – il deserto indica questa solitudine – è una condizione che espone particolarmente l’uomo alla tentazione: non è difficile da capirlo, chiunque ha un po’ di esperienza lo sa molto bene. Il che è come dire che la solitudine non è una condizione proprio naturale. Uno potrebbe dire: e gli anacoreti? Appunto: quella della vita eremitica, anacoretica, della solitudine, è una chiamata; non è una chiamata a starsene tranquilli da qualche parte, ma è una chiamata al combattimento. Il Signore, che è venuto a sgominare il potere del Maligno, esce agli occhi dei Padri come un guerriero; ricordate Davide contro Golia: un guerriero armato della sua fionda per colpire al cuore il suo nemico. E allora il Signore lo va a sfidare proprio nel suo terreno, che è il terreno del deserto, della solitudine. Quindi, i Padri vedono quasi una provocazione che Cristo vuole fare al demonio per stanarlo: è qualcosa che può fare solo il Signore o chi da Lui è esplicitamente chiamato a questo, perché sappiamo molto bene che nessuno di noi deve esporsi volontariamente alla tentazione, in quanto non abbiamo la forza umana per resistere; abbiamo sì la grazia, ma l’abbiamo quando appunto è il Signore a permettere qualche cosa, non quando noi volontariamente ci esponiamo.
L’altra ragione è ancora più profonda. San Tommaso, riprendendo sant’Ambrogio, dice: «Cristo fece questo [cioè, andò nel deserto per essere tentato] per indicare “un mistero, cioè per liberare dall’esilio Adamo”, il quale era stato espulso dal paradiso e mandato nel deserto» (ibidem). Qui c’è il senso, che abbiamo visto diverse volte, dell’Incarnazione. L’Incarnazione è una ricapitolazione, una riparazione della caduta: se ricordate, lo abbiamo già visto parlando dell’Annunciazione, che è stata la riparazione, ricapitolazione di quello che è accaduto nell’Eden tra Eva e il serpente; nell’Annunciazione, abbiamo Maria e l’angelo (vi rimando alla catechesi per approfondire l’argomento). Qui, nelle tentazioni nel deserto, abbiamo Adamo che doveva essere recuperato. Ricordate che, dopo la colpa, Adamo ed Eva vengono cacciati dal giardino dell’Eden e vanno in un contesto che è caratterizzato non più dai frutti spontanei, dalle erbe, dalle piante del paradiso in cui la terra dà in abbondanza, ma da rovi e spine, cioè da una condizione desertica, dove la terra è sterile. Il Signore entra in questa sterilità, in questo deserto, per combattere il demonio, per riscattare Adamo, per assumerlo, portarlo sulle proprie spalle e riportarlo questa volta non in un paradiso terrestre ma nei Cieli, attraverso la sua Passione.
Vedete dunque che nelle Sacre Scritture ogni dettaglio – il deserto, i quarant’anni, il Giordano, l’apertura dei cieli, come abbiamo visto l’ultima volta parlando del battesimo di Gesù – ha una risonanza in diversi testi delle Sacre Scritture stesse che si chiamano poi a vicenda, illuminandosi l’uno con l’altro. È molto importante recuperare questa dimensione della contemplazione cristiana della lectio divina.
Terzo aspetto: perché dopo il digiuno? Anche qui san Tommaso riporta alcune motivazioni. Leggiamo le prime due. La prima è questa: «Tutti devono premunirsi contro le tentazioni. Cristo quindi, digiunando prima di affrontare la tentazione, ci insegna ad armarci contro le tentazioni mediante il digiuno» (III, q. 41, a. 3). Cioè, il Signore fa precedere il digiuno alla tentazione per insegnarci che il digiuno è un’arma potente contro la tentazione, in particolare contro le tentazioni legate alla parte concupiscibile dell’uomo, quindi all’intemperanza. Non a caso la Chiesa continua a mantenere la pratica del digiuno, anche se ormai è molto affievolita, durante la Quaresima. Tradizionalmente, la Quaresima consisteva in quaranta giorni di digiuno: non di digiuno assoluto, evidentemente; il digiuno era considerato un pasto al giorno, più o meno verso il tramonto del sole, con la possibilità di aggiungere una o due piccole refezioni. L’idea è proprio quella del colpire questa dimensione dell’intemperanza in particolare legata alla gola, alla quale sono poi legate tutte le altre tentazioni.
«Secondo, per far vedere che il diavolo assale per tentarli anche coloro che digiunano, come tutti quelli che fanno il bene» (ibidem). San Tommaso ci dice: il digiuno serve per combattere la tentazione, ma bisogna anche tenere presente che coloro che digiunano e in generale tutti coloro che praticano il bene, che si dedicano alla vita di preghiera, al digiuno, al servizio di Dio, devono attendersi la tentazione. Noi tante volte diciamo: “perché io cerco di servire il Signore e poi mi capita X, Y, Z, sono tentato, eccetera?”. È proprio lì che il Signore, con il suo esempio, ci risana da questa mentalità dicendoci: “proprio perché fai il bene, sei tentato”. Pensiamo a Giobbe, uomo giusto per eccellenza, che fu tentato; pensiamo a Tobia, a questi personaggi particolarissimi dell’Antico Testamento, che hanno questa caratteristica di essere fortemente tentati. Pensiamo appunto al Signore stesso, che non ha alcun peccato: il Signore, che è il bene, viene tentato. Dunque, essere tentati è qualche cosa che fa parte non solo in generale della vita, ma proprio della vita di chi cerca di servire il Signore.
L’ultima considerazione che vorrei fare è sulla questione dei quaranta giorni. Anche qui non è casuale questo riferimento – quaranta giorni e quaranta notti – perché quaranta furono gli anni di peregrinazione di Israele nel deserto. Se ricordate, in questi quarant’anni, lasciata la terra della schiavitù, la terra d’Egitto, passato il Mar Rosso, il popolo peregrina nel deserto. Perché? Non ci volevano quarant’anni per arrivare dal Nilo all’ingresso della Terra Santa. Furono quarant’anni di peregrinazione perché il popolo mormorò più volte contro Dio, mancò di fede. Mormorò anche contro Mosè. In particolare questa mormorazione era legata al fatto che si dubitava che Dio potesse sfamare il suo popolo nel deserto e dargli da bere. Ricordiamo la tentazione alle acque di Merìba; poi la mormorazione a cui il Signore risponderà con la manna, poi con le quaglie.
Queste mancanze di fede sono state quindi tutte legate a questa facoltà dell’uomo, cioè alla dimensione umana del concupiscibile, in particolare legata alla sfera della manducazione del cibo. E il Signore infatti recupera e guarisce questa mancanza di fede del suo popolo proprio digiunando, sapendo che il Padre in questi quaranta giorni e quaranta notti non gli avrebbe fatto mancare nulla, non lo avrebbe fatto soccombere. E al termine di questi quaranta giorni e quaranta notti, al termine delle tentazioni – il Signore ebbe fame, dice il Vangelo – gli angeli lo servirono. Come il pane degli angeli, la manna, aveva sfamato gli israeliti increduli, qui gli angeli sfamano il Figlio di Dio, che invece vince l’incredulità attraverso la sua fede. Anche questo dettaglio del “quaranta” è un richiamo fortissimo che indica non solo un’analogia, ma un’analogia che parla di un risanamento profondo di quello che impedì al popolo di entrare nella Terra promessa. Sapete che attraversarono il Giordano i figli della generazione che era uscita dall’Egitto, ma non coloro che uscirono dall’Egitto, proprio perché avevano mancato di fede. La fede del Figlio di Dio invece riapre in qualche modo il Giordano, nel battesimo, quindi riapre la strada per il Regno dei Cieli. Ed è in questa fede – che è la fede di Cristo, la fede della Chiesa – che ci si salva.
Nelle prossime lezioni vedremo due grandi capitoli, cioè: in generale gli insegnamenti, la predicazione del Signore; e i miracoli del Signore. Due grossi capitoli che san Tommaso tratta in tre quæstiones diverse.
La tentazione di Gesù
Cristo scelse il tipo di vita più conforme al fine dell’Incarnazione. L’annuncio della verità: necessario alla salvezza. Contemplazione e azione insieme. Perché volle essere tentato? E perché dopo il digiuno di 40 giorni e nel deserto? Vediamo le ragioni con l’Aquinate.
Il Proprio della seconda domenica di Quaresima
Per la seconda domenica di Quaresima, il Proprio gregoriano delle due forme del Rito romano è molto diverso: in comune c’è solo l’Offertorio. Nel Proprio gregoriano ogni momento liturgico scandito dall’antifona è intimamente legato ad uno stile compositivo.
I misteri della Nascita – Il testo del video
La nascita di Gesù non è stata manifestata a tutti, per preservare il merito della fede, cioè di coloro che avrebbero creduto ai testimoni prescelti da Dio. È la stessa logica per la Risurrezione e gli altri misteri della fede. Una logica in cui rientra la mediazione della Chiesa.
Il battesimo del Signore – Il testo del video
I tre sensi del battesimo di Giovanni e il legame con il catecumenato: la preparazione al sacramento. Il battesimo di Gesù, tre ragioni di convenienza: la purificazione delle acque, vecchio e nuovo Adamo, l’esempio. La scelta dei trent’anni: la differenza tra il Signore e noi.