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MEDIORIENTE

La Siria mette in crisi Hamas

La vittima segreta del dramma siriano è il gruppo terroristico palestinese che di fatto è la branca locale dei Fratelli Musulmani.

Attualità 08_03_2012
siria
C’è una vittima segreta della tragedia che si sta consumando in Siria: Hamas. Il movimento fondato da Ahmad Yassin (1937-2004) dal 2006, quando ha vinto le elezioni in Palestina, riesce a essere due cose insieme: un gruppo terroristico che periodicamente organizza attacchi contro Israele e il governo di fatto del territorio di Gaza, mentre l’altra metà della Palestina, la Cisgiordania, resta sotto il controllo dei rivali laici del partito Fatah di Abu Mazen.

Hamas, come recita il suo statuto, è anche una terza cosa: è la branca palestinese dei Fratelli Musulmani, la più grande organizzazione internazionale del fondamentalismo islamico, che oggi – dopo aver vinto le elezioni seguite alle cosiddette primavere arabe – governa, sia pure con forme di compromesso con altri poteri, il Marocco, la Tunisia e l’Egitto. I Fratelli Musulmani sono anche maggioritari tra le forze che si oppongono al regime di Assad in Siria, e se Assad cadesse e si andasse alle elezioni probabilmente le vincerebbero. Per il momento, sono le principali vittime della repressione siriana e piangono decide di morti caduti sotto il fuoco dei reparti speciali di Assad. E qui nasce il problema per Hamas. Dopo l’uccisione di Yassin, il 22 marzo 2004, da parte di un missile lanciato da un elicottero israeliano i dirigenti di Hamas hanno deciso di non risiedere più in Palestina, dove Israele può eliminarli più o meno quando vuole.

L’attuale guida di Hamas, Khaled Mashaal, risiede a Damasco, da anni gradito ospite del presidente Assad, di cui è intimo amico. Le primavere arabe hanno fatto nascere per Mashaal una situazione impossibile. Mashaal dirige la branca palestinese dei Fratelli Musulmani – cioè Hamas, appunto – e pranza, cena, è finanziato da quello stesso Assad che perseguita e uccide quotidianamente i Fratelli Musulmani siriani. Una situazione molto difficile per Mashaal, se si considera che in tutto il mondo arabo i leader dei Fratelli Musulmani maledicono quotidianamente Assad. Inoltre, da quando Hamas ha preso il potere a Gaza, Mashaal è in difficoltà con i leader del suo movimento nei territori – a cominciare da Ismail Haniyeh, che ha la carica di primo ministro di Gaza e di fatto la esercita, benché non sia riconosciuto come tale dalla comunità internazionale –, stufi di farsi dirigere da qualcuno che vive all’estero e non conosce i problemi quotidiani di chi guida una regione povera e sovrappopolata.

Cautamente, alcuni dei collaboratori di Mashaal hanno cominciato a lasciare Damasco. Il comandante militare di Hamas, Imad al-Alami, è tornato a Gaza, mentre i dirigenti politici Abu Marzuk e Muhammad Nazzal si sono trasferiti rispettivamente al Cairo e ad Amman. Ma a Damasco c’è anche la sede di Hamas, che non è una piccola struttura. Per il momento solo il Qatar si è detto disponibile a ospitarla. Ma questo rafforzerebbe le pretese egemoniche del piccolo ma ricchissimo Qatar sull’intero mondo arabo dopo le «primavere», e inoltre si tratta di una sede un po’ lontana dalla Palestina.

Quanto alla Palestina, è pericolosa, non solo per i possibili attacchi israeliani ma anche per gli scontri con i seguaci di Abu Mazen. Il 6 febbraio scorso Mashaal ha compiuto una mossa senza precedenti. A Doha, in Qatar, alla presenza dell’emiro di quel Paese – che quindi impone comunque la sua egemonia – ha firmato un accordo con Abu Mazen per un governo di unità nazionale che riunisca in sé il controllo di tutta la Palestina – Cisgiordania e Gaza –, con rappresentanti di Hamas all’interno ma con lo stesso Abu Mazen come primo ministro. Inoltre il documento di Doha richiede una «lotta popolare» contro Israele, ma questa in Palestina è un’espressione pressoché in codice per indicare un atteggiamento ostile che però non si avvale di bombardamenti e attacchi terroristici. Mashaal quindi a Doha ha accettato quanto Hamas dal 2006 a oggi non ha mai voluto concedere: lo smantellamento del governo autonomo di Gaza a favore dell’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Abu Mazen e la fine di attacchi terroristici contro Israele non coordinati con Fatah.

Senonché i leader di Hamas a Gaza hanno convocato due riunioni a Khartoum, in Sudan, e al Cairo, affermando che Mashaal non aveva i poteri per firmare impegnando tutto il movimento e che comunque l’accordo sul nuovo governo palestinese è incostituzionale. Haniyeh ha cominciato a girare le capitali arabe spiegando che quello che i media internazionali – i quali riprendono le notizie dalla televisione al-Jazzira, cioè dal governo del Qatar – hanno presentato come un grande accordo fra Hamas e Fatah favorito dall’emiro del Qatar in realtà è un accordo fra Mashaal e una piccola fazione di Hamas e Fatah.

Quanto al grosso di Hamas, chiede di mantenere il controllo di Gaza e di avere il diritto di veto sui nomi dei ministri per fare suoi gli accordi di Doha, o anche solo per autorizzare una visita di Abu Mazen a Gaza, che era prevista da quegli accordi ma finora non c’è stata. Anche Haniyeh, peraltro, è in difficoltà con i Fratelli Musulmani internazionali e con una parte della sua base perché, bisognoso di fondi, è andato a baciarsi e abbracciarsi con Khamenei a Teheran, capitale dell’Iran sciita, mentre per una parte non piccola dei Fratelli Musulmani gli sciiti sono eretici con cui è meglio avere a che fare il meno possibile. Quest’estate Hamas dovrà rieleggere la sua guida, e la rielezione di Mashaal non è affatto scontata, anzi appare allo stato improbabile. Ma le fazioni appaiono spaccate su diversi punti cruciali: il tipo di lotta contro Israele, i rapporti con l’Iran, il dialogo con Fatah, la questione siriana.

La spaccatura potrebbe essere così profonda da condurre alla fine di Hamas come movimento unitario, il che non favorirebbe necessariamente Fatah e neppure la causa della distensione in Medio Oriente, perché molti militanti – più che all’odiata fazione laica di Abu Mazen – potrebbero passare a una delle tante sigle dell’estremismo islamico «salafita» che sono apparse in Palestina negli ultimi anni e che contestano sia Hamas sia i Fratelli Musulmani in genere come, paradossalmente, troppo moderati.