La sinistra resta in vita solo per non far governare le destre
Ascolta la versione audio dell'articolo
Quello francese è un caso eclatante della tattica sistematica di escogitare qualsiasi marchingegno pur di tenere le destre fuori dalle "stanze dei bottoni". Ma non è l'unico. In Europa socialisti e liberali “blindano” la vecchia “maggioranza Ursula” ignorando il verdetto delle urne.
Il secondo turno delle recenti elezioni legislative francesi ha offerto lo spettacolo più emblematico del ritorno, nelle sinistre, dello schema "frontista": la temeraria sommatoria delle forze più disparate e contraddittorie motivata dalla proclamata priorità di impedire la vittoria di schieramenti di destra demonizzati come "fascisti", antidemocratici, pericolosi.
Il partito Ensemble del presidente Emmanuel Macron e le sinistre del NFP (a loro volta accozzaglia dei gruppi più diversi, dai socialisti riformisti agli ecologisti più fanatici, a comunisti e gauchisti dalle tendenze filoislamiche e talvolta antisemite) hanno stipulato sistematici accordi di desistenza nei collegi per impedire la vittoria dei candidati del Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella - partito che aveva conseguito nettamente la maggioranza relativa - sfruttando i trabocchetti offerti da un sistema elettorale già molto infido come il maggioritario a doppio turno ad accesso con la soglia limitata del 10% dei voti. Il tutto senza uno straccio di minimo comune denominatore politico o di accordo programmatico, in uno spirito puramente distruttivo ed ostruzionista, appellandosi soltanto alla paura degli elettori.
Lo scopo di non far governare la destra, come è noto, è stato raggiunto, ma ad un prezzo spropositato, che in una democrazia correttamente funzionante non dovrebbe essere mai contemplato: il più totale caos politico, una frammentazione incomponibile, una sostanziale ingovernabilità, e per giunta l'amplissima agibilità politica offerta a una minoranza estremista di sinistra molto più "antisistema" (anti-occidentale, anti-mercato, filo-dittatoriale) di quanto sia la destra che i macroniani hanno additato come spauracchio. Un prezzo che il presidente ha scelto scientemente, cinicamente di far pagare al suo paese, contando proprio sulla divisione e sull'instabilità post-elettorale per conseguire lo scopo di restare arbitro del potere, usando con spregiudicatezza ogni artificio che la sua carica gli consentirà. Tattica già evidente dalle sue prime mosse successive alla seconda tornata, come il rifiuto di far dimettere il premier Gabriel Attal per decantare la situazione, sfruttare le divisioni tra le forze politiche e tentare di imporre di nuovo un capo del governo a lui gradito.
Quello francese è un caso particolarmente eclatante della tattica sistematica di escogitare qualsiasi marchingegno pur di tenere le destre fuori dalle "stanze dei bottoni". Ma non è certo l'unico.
A livello dell'Unione europea, abbiamo recentemente assistito – e anzi stiamo ancora assistendo – al tentativo da parte del gruppo socialista e liberale (per lo più macroniano, guarda caso), sconfitti alle elezioni europee, di “blindare” la vecchia “maggioranza Ursula” con una parte del gruppo dei Popolari, ignorando il verdetto delle urne che hanno nettamente premiato le forze della destra sovranista e bocciato le politiche dirigiste della Commissione uscente: senza curarsi della possibile paralisi delle istituzioni comunitarie e del concreto rischio di una spaccatura sempre più profonda tra le classi dirigenti Ue e le società civili del vecchio continente. Anche qui, nessun ragionamento propriamente politico, nessuna argomentazione su contenuti programmatici: soltanto la conventio ad excludendum verso qualsiasi gruppo politico facente capo ai conservatori di Ecr o a Identità e democrazia (oggi in via di trasformazione e ampliamento in Patrioti per l'Europa), trattati come degli appestati da isolare a prescindere. Nonostante il fatto evidente che molti esponenti di quelle destre – da Giorga Meloni e Matteo Salvini al Pis polacco, a Geert Wilders, allo stesso tanto demonizzato Orbán – siano da anni tra le classi di governo nei loro paesi, e, che piacciano o meno, non risulta ci sia stata nessuna apocalisse né a livello nazionale né delle istituzioni dell'Unione.
Negli Stati Uniti, da quando Donald Trump è comparso sulla scena politica praticamente l'unica argomentazione del Partito democratico e degli opinion leader progressisti è stata quella di additare il fulvo tycoon newyorkese come un mostro, accusandolo di ogni nefandezza possibile e facendo della contrapposizione a lui l'unico tratto comune tra le varie anime di una sinistra assolutamente eterogenea e divisa su tutto, dalla politica estera a quella ambientale a quella economica.
E quando – dopo che i Dem pensavano di essersene liberati con l'elezione di Biden e con la raffica di inchieste giudiziarie su di lui – Trump ha riconquistato la sua centralità politica, il consenso e la nomination repubblicana, e ha cominciato a profilarsi con sempre maggiore evidenza la possibilità concreta che nelle prossime elezioni egli sconfigga un presidente uscente sempre più in affanno politico e psicofisico, allora improvvisamente media e classe politica progressista si sono “accorti” delle condizioni di salute a dir poco precarie di Biden. E una parte di quell'establishment è uscita allo scopoerto, progettando manovre per sostituirlo in corsa e “incoronare” un nuovo candidato: magari imposto dall'alto senza tener conto dell'opinione degli elettori delle primarie né delle procedure, pur di tentare un ultimo colpo di mano per sbarrare la strada al ritorno di Trump alla Casa Bianca.
Anche in Italia, da quando il centrodestra guidato da Giorgia Meloni ha vinto le elezioni nel 2022, interrompendo una lunga sequenza di governi tecnici o di minoranza controllati quasi sempre dal Partito democratico, la tendenza della sinistra promuovere un'”unione sacra” motivata solo dalla delegittimazine della destra al governo si è andata radicando e cronicizzando. Invece di cercare una piattaforma programmatica in grado di catalizzare il consenso degli elettori, il Pd di Elly Schlein e i suoi onnipresenti intellettuali e anchormen/women di riferimento non hanno fatto altro che evocare ossessivamente un ipotetico, lunare pericolo fascismo, cercando di coagulare intorno al loro “al lupo, al lupo” un nuovo “campo largo”, anzi larghissimo, in cui sono risucchiati senza molta voglia anche i 5 Stelle, imperniato solo sulla solita chiamata alle armi per fermare i “barbari” e privo di qualsiasi coerenza.
Questa attitudine puramente negativa e ostruzionistica alla dialettica politica sottopone oggi molte democrazie europee e occidentali a uno stress continuo che logora i loro elementi di stabilità e di effettiva garanzia, indebolisce le istituzioni e crea una contrapposizione costantemente “avvelenata”. Inserendosi pienamente in quella tendenza a trasformare la democrazia in governo perennemente “emergenziale” e “tecnico” - fondato sulla paura, il moralismo e il ricatto morale - che si è manifestata più volte nel recente passato: dall'allarme pandemico a quello dell'ambientalismo apocalittico, fino alla costante mobilitazione bellicista contro spauracchi esterni utilizzati, molto prosaicamente, come sostituti del consenso per classi politiche del tutto screditate.