La salvezza del pianeta viene solo dal riconoscere Dio creatore
I martellanti allarmi sui cambiamenti climatici e sull'ambiente che si susseguono in questi giorni in cui si svolge la Conferenza Internazionale sul clima a Glasgow, mettono in discussione il ruolo dell'uomo nel mondo. Per questo proponiamo ampi stralci della riflessione sul tema della Creazione svolta da dom Giulio Meiattini alla Giornata della Bussola lo scorso 23 ottobre.(Clicca qui per il testo integrale).
- COP26, UN INIZIO APOCALITTICO, di Stefano Magni
I martellanti allarmi sui cambiamenti climatici e sull'ambiente che si susseguono in questi giorni in cui si svolge la Conferenza Internazionale sul clima a Glasgow, mettono in discussione il ruolo dell'uomo nel mondo. Per questo proponiamo ampi stralci della riflessione sul tema della Creazione svolta da dom Giulio Meiattini alla Giornata della Bussola lo scorso 23 ottobre.(Clicca qui per il testo integrale).
Il peccato e la paura
La comprensione del mondo alla luce della fede nella creazione, sollecita il pensiero verso la questione dell’inizio, dell’origine delle cose. Dunque, viene naturale porsi la domanda: che rapporto c’è fra le origini del mondo creato da Dio, della creatura umana, e la paura? E come questo rapporto può rischiarare il modo di accostare il dibattuto tema ecologico?
Dalle prime pagine della Genesi veniamo a sapere che l’esperienza della paura fa la sua comparsa in conseguenza del peccato. Dopo che Adamo ed Eva ebbero mangiato del frutto proibito, conobbero la paura, derivante dalla scoperta di una loro vulnerabilità (l’essere nudi) che esisteva già prima, ma che non costituiva alcuna difficoltà: “Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto” (Gen 3,10). Lo squilibrio del peccato scatena la paura. Ascoltando san Paolo sembra che questa risposta sia confermata. Scrive l’Apostolo: “Non avete ricevuto uno spirito da schiavi, per ricadere nella paura” (Rm 8,15). La schiavitù imparentata alla paura, secondo l’Apostolo è chiaramente quella del peccato: “Non siete più schiavi del peccato” (Rm 6,7.20). Per Paolo, perciò, la schiavitù è prodotta dal peccato e porta con sé la paura, come conseguenza della perdita del rapporto di confidente familiarità con Dio.
(…) A questo punto la partita sembrerebbe chiusa: la paura nasce dal peccato, mentre la liberazione dal peccato, ottenuta dalla redenzione di Gesù Cristo, ci riscatta dalla schiavitù e dalla paura che vi è connessa. D’altra parte anche la storia del cristianesimo, secondo certe ricostruzioni non prive di fondamento, attesta un profondo legame – nella teologia, nella predicazione e nella spiritualità – fra la paura (della morte, del giudizio divino, della dannazione eterna, ecc.) e la rilevanza data al peccato (si vedano in proposito gli studi di Jean Delumeau). Ora, questa prospettiva non è sbagliata, ma ritengo che sia anche insufficiente.
Una risposta più profonda e adeguata intorno alle radici più profonde della paura deve guardare proprio all’origine del mondo e dell’essere umano da Dio Creatore. Le radici della paura o, meglio detto, le condizioni di possibilità ultime della paura, vanno cercate, a mio avviso, nella stessa creaturalità dell’uomo, in quanto esposta alla tentabilità. (…)
Uno sguardo alle origini
Nel racconto biblico delle origini la creazione è considerata un gesto di generosità divina, un dono che Dio fa alla creatura umana, a sua volta donata a se stessa. E’ questo dono che costituisce il mondo e, in esso, l’essere umano. Ogni essere vivente e ogni frutto della campagna sono affidati all’uomo (cf. Gen 1,28-29). Questi, dunque, è ricco per natura, e anche sovrano di questa ricchezza, come dice dell’uomo un testo salmico: “Tutto hai posto sotto i suoi piedi” (cf. Sal 8,7-10). Tuttavia, questa posizione centrale e di supremazia non è una conquista e neppure un diritto, ma – appunto – un dono ricevuto, che aspetta e spera gratitudine e riconoscenza.
(…) Questo aspetto è decisivo per la nostra riflessione: la natura che è posta sotto ai piedi dell’uomo, non perde mai il carattere di dono, dunque è collocata all’interno di una relazione fra libertà finita e infinita. Questo possesso si mantiene come tale solo se è mantenuta la relazione di alleanza libera fra Donatore e donatario. E dove c’è libertà c’è storia, nel processo del dare, ricevere e restituire che contraddistingue tale alleanza. Questo scambio non ha un valore utilitarista e mercantile, ma si tratta di scambio simbolico. (…) Il rapporto dell’uomo con la natura non è dunque un rapporto immediato o chiuso in se stesso, ma si sorregge e si comprende su questo sfondo relazionale che lo collega a Dio sotto il profilo della donazione.
Qui emerge il ruolo dell’albero che sta al centro del giardino e che è interdetto alla prima coppia genesiaca. Col suo aspetto di limite, di proibizione, esso ha proprio la funzione di ricordare che il dominio sul giardino non è totale. Stendere la mano su questo albero che sta al centro e che ha che fare con la conoscenza del bene e del male (cioè con gli estremi massimi che definiscono e contengono la totalità e i capisaldi dell’ordine), significherebbe annullare il carattere di dono dell’essere, porsi come origine, invece che come originati o riceventi. “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare” (Gen 2,16-17).
In altre parole, quest’albero, che per la sua collocazione e per la sua natura, è come l’asse del giardino, il centro del mondo (omphalos), segnala la soglia oltre la quale il carattere di dono del mondo della natura sarebbe misconosciuto e violato, provocando la morte. La proibizione di stendere la mano per prenderne e mangiarne, sta a significare che Adamo dispone di tutto, ma non del principio e dell’origine di tutto. Come se Dio dicesse: “Tutto è tuo, ma ricorda che tu non sei il tutto”. (…) L’uomo potrà godere e possedere della natura donata, solo rispettando questo limite invalicabile. Un rispetto che è riconoscimento della sacralità e della trascendenza inscritta dall’atto creativo nel mondo.
In altre parole, alla creatura umana è chiesto di rinunciare a pensarsi autosufficiente e onnipotente nei confronti della natura, perché originariamente e indelebilmente ricevente. Potremmo anche dire, per meglio capire, che il frutto non disponibile è come la “decima” offerta a Dio di cui si parla nel libro del Levitico. Il senso dell’offerta della decima del raccolto era precisamente questo: rinuncio ad accaparrarmi tutto e riservo qualcosa per Dio, in memoria del fatto che anche quello di cui faccio uso è comunque suo, proveniente da lui e concesso a me. (…)
Problema ecologico e pseudo-soluzioni ecologiste
(…) Il problema ecologico di cui oggi tanto si parla – sfruttamento sregolato delle risorse naturali, deturpazione dell’ambiente, inquinamento delle acque, dell’aria, della terra – deriva dallo smarrimento del senso del limite inscritto nella gratuità del dono che sta nel cuore dell’atto creativo, cioè dal volersi impossessare della riserva di indisponibilità rappresentata dal frutto dell’albero al centro del giardino. Ciò si traduce nello strapotere della tecnica, cieca alla dimensione simbolica e sapienziale della natura creata, che rimanda a un Donatore trascendente, e interessata solo a quella immanente, quantitativa e utilizzabile.
Tuttavia, anche il tentativo di voler risolvere questi problemi, generati dallo sregolato potere umano e tecnologico, appare ancora tutto soggetto alla medesima mentalità e cultura tecnocratica che li ha generati. Dopo aver provocato dei danni al pianeta o dopo aver affermato, a torto o a ragione, che il futuro dell’ambiente e persino la sopravvivenza umana è in pericolo per cause antropiche, i rimedi che si suggeriscono sono ancora tutti e soltanto antropici. Il pensiero mainstream pensa di poter interpretare e risolvere il problema ecologico solo in base a puri calcoli scientifici e ad altre innovazioni della intraprendenza tecnologica, solo più raffinata e “pulita” rispetto al passato (la cosiddetta “conversione ecologica”).
Al fondo di questo modo di pensare, di questa cultura “verde” ed ecologista, sia pur portatrice di un’istanza legittima, c’è però ancora il medesimo errore che ha provocato i danni ovvero il presupposto che l’essere umano abbia il potere di manipolare la natura migliorandola, dopo averla manipolata deturpandola. Come se fosse nella disponibilità umana, per esempio, riequilibrare il sistema complesso del clima, grazie alle risorse della tecnoscienza. In ambedue le prospettive (sfruttamento e salvezza del pianeta) è all’opera il presupposto che la natura non faccia parte di un flusso di donazione fra Creatore e creatura, non sia abbracciata e dipendente da un rapporto di alleanza fra Libertà divina e umana, ma sia riducibile a semplice insieme totalmente controllabile.
Non si riesce a vedere quello che invece vede la fede nella creazione: che la natura è, nel suo nucleo più profondo, indisponibile al controllo umano (vi riposa un vestigium divino) e che la possibilità di fruirne in una relazione equilibrata è basata sul principio opposto: la rinuncia al dominio totale, la “decima” riservata a Dio, in una parola il culto. Quest’ultimo trasferisce le sorti ultime della natura dalle mani dell’uomo (scienza e tecnica) alle mani di Dio (sapienza e virtù). I due piani dovranno certo essere articolati e coniugati reciprocamente nella differenza complementare, ma nel chiaro rapporto di dipendenza del primo rispetto al secondo, della scienza verso la sapienza della fede, della tecnica verso la virtù.
Possiamo dunque affermare, in conclusione, che alla radice sia del cosiddetto problema ecologico sia dei progetti ecologisti che vorrebbero risolverlo, c’è il medesimo “peccato originale”, che consiste nel volersi assicurare con mezzi propri contro la prova della paura e dell’angoscia metafisica innocente, invece di affrontarla e superarla con l’atto della fede che riconosce il Creatore e il limite da lui posto. Ogni volta che, al contrario, prevale la scelta dell’autoassicurazione onnipotente, si perpetua la colpa madre.
Ora, questo tentativo di assicurazione totale può rivestire, oltre alle sembianze della tecnoscienza, che si fa istanza ultimativa sfociando nella tecnocrazia, anche quelle della magia. Per magia intendo il ricorso a formule, oggetti, pratiche, riti che riescano ad attivare energie, forze, meccanismi, dinamiche che non necessariamente fanno riferimento a esseri spirituali sovraumani. (…)
La scienza/tecnica, non in se stessa, ma se non correlata e inserita in un orizzonte simbolico-sapienziale come quello offerto dalla fede nella creazione, acquisisce alla fine caratteri magici e, come la magia, cerca di impadronirsi del segreto, del meccanismo, della forza su cui fare leva per dominare la natura e trasformarla. Ambedue sanno bene del rischio che corrono: le forze che si vogliono catturare potrebbero sfuggire di mano, se si commette un errore. Nel rito magico o nell’esperimento scientifico l’apprendista stregone potrebbe soccombere. Ma magia e tecnoscienza autoreferente, vivono della convinzione che se il rito o l’esperimento vengono condotti senza errori, in maniera corretta, l’effetto sarà quello atteso. Si tratta di due versioni diverse del medesimo tentativo di superare la paura creaturale, evitando di posizionarsi sul piano della fiducia verso Dio e ricorrendo, in alternativa, al meccanismo risolutorio della “formula”, magica o matematica.
Che oggi si venga spesso indirizzati verso la riscoperta di pratiche e credenze magico-ancestrali, per recuperare l’armonia con la natura, o si confidi nella capacità dell’uomo di controllare l’andamento climatico programmando esattamente le politiche energetiche, ci troviamo sempre davanti a tecniche che dimenticano che il rapporto con la natura è sempre mediato dal rapporto col Dio creatore e dal suo dono libero e provvidente. Coniugare l’approccio scientifico con quello della fede nella creazione, sfuggendo così la deriva magica, resta perciò il primo e fondamentale compito per una corretta interpretazione dell’attuale problema ecologico, il principio e fondamento per una ecologia che si voglia davvero definire “integrale”.
*OSB, Abbazia di Noci (BA)