La ripresa dell'Italia nasce dalle piccole imprese
La ripresa esiste, inutile negarlo. Ci sono ancora settori in crisi, aziende che chiudono e disoccupazione, ma i dati dimostrano che l'economia italiana sta realmente ripartendo. E riparte grazie alle piccole imprese manifatturiere, legate al territorio e alla creatività di chi ci lavora. Invece che delocalizzare per accontentare i vecchi clienti, le nuove imprese di successo restano in Italia e cercano nuovi clienti.
La durata media della vita si è sicuramente allungata negli ultimi decenni e tuttavia purtroppo siamo spesso raggiunti da notizie che riguardano la morte di persone relativamente giovani. Partiamo da qui per un rapido giro d’orizzonte sulla nostra economia, perché anche in economia avviene la stessa cosa.
Molti dati delineano, finalmente, l’inizio di una ripresa sicuramente trainata dalle esportazioni, ma che sembra poter contare anche su primi segnali di riscossa del mercato interno. Confcommercio attesta una crescita dei consumi, il turismo chiude la stagione estiva con buoni risultati, le autostrade segnalano un incremento dei passaggi e anche la capacità di risparmio delle famiglie è data in recupero visti i dati della raccolta mensile delle società di gestione di capitali. Come spesso capita nelle trasmissioni radiofoniche e televisive in argomento, leggendo queste righe qualcuno sobbalzerà e, indignandosi, sarà portato a contrapporvi la propria situazione, quella di conoscenti, quella della propria impresa o dell’impresa presso cui lavora. Tutte ancora ben lontane dal vedere la luce. Dispiace, ma sono vere entrambe le cose e se le statistiche segnalano un miglioramento dicono la verità, e cioè che la situazione media del Paese è realmente migliorata, ma ciò non significa che i problemi di tutti siano risolti. Anche perché questo non si verifica mai: durante il boom economico degli anni Sessanta, con tassi di crescita simil-cinesi, c’erano per esempio aziende che fallivano e persone che facevano fatica. Allo stesso modo, in Paesi economicamente forti ci sono aziende che vanno male e, viceversa, in Paesi deboli si possono rintracciare casi di successo planetario. Insomma l’andamento economico è sempre a macchia di leopardo e alcune volte, come in questo momento per fortuna, le macchie positive sono più grandi di quelle negative.
Dopo questa considerazione di metodo, qualche dato di fatto. In particolare, si deve porre l’attenzione sull’evidenza che, per quanto riguarda le aziende, questa ripartenza sembra fondarsi su tre elementi spesso criticati, ancora oggi, dai commentatori: dimensione minore, territorio e manifattura. Si tratta di elementi da sempre distintivi del nostro agire economico, quasi a costituire insieme a pochi altri un modello originale di sviluppo, e tuttavia sottoposti, qualcuno più qualcuno meno, a critiche costanti. Se l’export tiene e incrementa i propri risultati non è merito soprattutto di Fiat, che esporta ragioni sociali e attività economiche, ma delle migliaia di piccole e medie imprese che, contrariamente al sentire comune e nonostante le ridotte dimensioni, hanno da tempo allargato, direttamente o tramite i clienti, il proprio raggio d’azione ai mercati internazionali. Trovare imprese di pochi milioni di fatturato che abbiano percentuali elevate del fatturato realizzate all’estero è, ad esempio, relativamente facile. Lungi dall’essere un ostacolo, la ridotta dimensione delle nostre aziende è dunque una peculiarità uscita rafforzata da questo lungo periodo di crisi: non va dimenticato infatti che negli ultimi anni, anche favoriti dalle difficoltà di alcuni, altri hanno compiuto acquisizioni in Italia e all’estero, rafforzando la posizione sui mercati di riferimento ma restando sempre piccoli in relazione al contesto.
L’azione di queste imprese è concentrata sul manifatturiero in cui abbiamo competenze maturate da secoli e riconosciute a livello mondiale da decenni. Risultano oggi ridicoli i pareri di chi, anche accademici di vaglia, solo pochi anni fa vaticinavano, ad esempio, la fine del tessile nei paesi occidentali: stiamo, al contrario, assistendo a una rinascita di quel settore anche se ovviamente su basi molto diverse. E anche chi dall’estero compra marchi del nostro lusso si guarderà bene dallo spostare le sedi di lavorazione perché qui vivono e lavorano le persone capaci di tenere vivi con il proprio operare quotidiano quei marchi. Per non parlare dell’agro-alimentare e del successo di Expo o dell’intera filiera del legno e dei risultati stratosferici del Salone del Mobile. Dobbiamo credere, dunque, nelle nostre capacità manifatturiere e investire in scuole professionali che sappiano tramandarle alle nuove generazioni. Infine, il territorio. Dopo gli anni in cui era di moda andarsene in cerca, non di nuovi mercati da conquistare, ma di costi di produzione più bassi per tentare in questo modo di essere più competitivi presso i clienti tradizionali, molte imprese, non solo nostrane, hanno capito che è meglio invertire la strategia: non vecchi clienti da mantenere, con lo sconto realizzato producendo in nuovi paesi, ma nuovi clienti da conquistare con prodotti continuamente migliorati qualitativamente, per immagine e per i servizi ad essi collegati. E poiché nulla di tutto ciò è facilmente ottenibile nei paesi della delocalizzazione, dove al contrario è perseguibile solo un costo unitario largamente inferiore per beni standard e di media-bassa qualità, ecco il rientro in patria, un po’ alla chetichella in verità, e la rivalutazione conseguente della nostra diffusa capacità manifatturiera.
C’è un altro fenomeno che, sia pure di minore portata quantitativa, ha tenuto banco sui media nello stesso periodo e che può essere assimilato al precedente. Spesso ci è capitato di ascoltare, nelle mille trasmissioni televisive in cui la protesta è comprensibilmente di casa al contrario della proposta, la minaccia di tanti imprenditori lombardi, friulani e veneti di andare ad operare oltre confine nelle più ospitali Svizzera e Austria per abbattere i costi burocratici e ottenere immediati tornaconti in servizi e facilitazioni. Bene, con colpevole disattenzione, se non malcelato interesse, nessun media si è poi interessato a capire che fine facessero quelle lamentele, quanti imprenditori a distanza di mesi effettivamente trasferissero la propria sede in quei ridenti paesi. Peccato, avrebbero scoperto che solo una piccolissima percentuale, intorno al dieci per cento, passava dalle parole ai fatti: una cosa è manifestare disagio in favore di telecamera, ben altra chiudere baracca e burattini e trasferirsi, anche a vivere, oltre frontiera. C’è poco da discutere, il nostro Paese ha una tradizione e un retroterra assolutamente originale e, dunque, difficilmente sostituibile se non per strategie dal respiro cortissimo o mode destinate a una assai rapida obsolescenza. Altrove non si può trovare quello che qui, tra mille problemi, è esperienza consolidata e diffusa, sia in termini imprenditoriali che operativi. Chi ragiona esclusivamente di costi e burocrazia vive di standard, di ripetitività e di economie di scala, noi dobbiamo e possiamo competere soprattutto di qualità, servizio e innovazione.