La ricerca della felicità
Il "pessimista" o "lo sfigato": i ragazzi imparano a conoscere Leopardi da questi pessimi luoghi comuni. Ma è meglio leggere direttamente quel che scrisse di sé il genio di Recanati per comprendere la sua costante ricerca di amore e felicità.
A scuola, quando si presenta la figura di Leopardi nelle classi, bisogna fin da subito sfrondare i pregiudizi a cui i ragazzi sembrano essere affezionati quando si parla dello scrittore, pregiudizi preconfezionati da tanta letteratura, da tanti «intellettuali che sanno», da molti professori che si accontentano del giudizio altrui su un autore, senza cercare di incontrarlo con il proprio cuore, come si incontra qualcuno che si aspetta da gran tempo. Ecco allora che dopo alcune lezioni incentrate sulla natura della domanda di felicità espressa in maniera geniale dal poeta, i ragazzi iniziano a riscontrare una corrispondenza tra il desiderio espresso nelle pagine del recanatese e il proprio cuore e ad avvertire una dissonanza tra quanto hanno sentito o letto e la parola che più incombe in maniera immeritata su tutta la produzione leopardiana: la parola “pessimismo”.
Questa parola è come una frana che cade dal monte sul bel paesino che è a valle, portando distruzione e rovina in tutto ciò che incontra, non lasciando altro che devastazione cosicché della bellezza che c’era prima in quel luogo nulla più rimane. Lo stesso accade per qualsiasi autore che venga bollato di “pessimista”, nel gergo dei ragazzi “lo sfigato”: l’espressione all’istante incenerisce la bontà delle intuizioni e del pensiero e cancella la bellezza della poesia. Le semplificazioni riducono la complessità dell’animo, le domande del cuore.
Si tratterà, allora, di scoprire se non sia più adeguato il termine realismo per gran parte dell’esplorazione umana compiuta da Leopardi sul cuore dell’uomo. Se di fronte a tante pagine dello Zibaldone, i ragazzi sentono una vicinanza, una sintonia, un calore, la percezione che quanto loro avevano nel cuore è stato espresso in maniera più lucida, chiara (perché il genio esprime meglio di noi ciò che noi sentiamo vero, ma non riusciremmo a tradurre in immagini, parole, musica), sarà il segno che sul piano della descrizione e rappresentazione dell’animo umano Leopardi ha raggiunto un livello di semplicità (nel senso di non doppiezza e falsità) e, nel contempo, profondità rari, se non unici. Se, poi, molte sue conclusioni, come vedremo, sono similari a quelle di un libro veterotestamentario come il Qoelet o a quelle di un autore cattolico come il Manzoni significherà pure che c’è grande sintonia tra la visione antropologica giudaico-cristiana e quella leopardiana, almeno nelle premesse e nell’impostazione del problema.
Anche nell’ultima fatica di Pietro Citati intitolata Leopardi edita da Mondadori si legge che nel cuore della giovinezza del Genio recanatese «un sistema di malattie si impadronisce del suo organismo […]; il sentimento, l’entusiasmo si dileguano; l’infelicità umana è irrimediabile. Non gli resta che sopportare». La tradizione critica vuole che Leopardi, in maniera scettica e titanica, abbia combattuto contro la natura, mai arrendendosi, ma si sia arreso al desiderio di felicità.
Centinaia di lettere indirizzate agli amici, ai familiari, alle donne da lui amate, agli intellettuali costituiscono il romanzo autobiografico di Leopardi e rivelano un cuore che palpita, che prova grandi affetti, che desidera in maniera instancabile la felicità. La lettura delle epistole scagionerebbe l’autore una volta per tutte dalle malevole accuse di misantropia da cui dovette difendersi in vita e che gli furono mosse anche dopo morte. Il cuore del corpus epistolare è il desiderio di vivo affetto, l’entusiasmo per le persone che si accompagna alla ricerca di rapporti che siano di totale condivisione dell’anima, la perenne ricerca di una felicità che non sia banale, ma completa.
Particolarmente significativa è una lettera che Leopardi indirizza all’amico belga A. Jacopssen il 23 giugno 1823. Ne riportiamo, qui, una buona parte. Essa ben testimonia il cuore di Leopardi e il nucleo delle domande vive che lo animano:
«[…] Senza dubbio, mio caro amico, bisognerebbe o non vivere proprio o sempre sentire, sempre amare, sempre sperare. La sensibilità sarebbe il più prezioso di tutti i doni, se lo si potesse far valere, o se ci fosse a questo mondo qualche oggetto a cui applicarlo. Vi ho detto che l’arte di non soffrire è di questi tempi la sola che mi sforzo di imparare. Questo accade precisamente perché ho rinunciato alla speranza di vivere. Se dalle prime esperienze non fossi stato convinto che quest’arte era assolutamente vana e frivola per me, io non vorrei, non conoscerei altra via che quella dell’entusiasmo. Per un certo periodo ho sentito il vuoto dell’esistenza come se si trattasse di una cosa concreta che pesasse gravemente sulla mia anima. Il nulla era la sola cosa che esistesse. Mi era sempre davanti come un fantasma terribile; io non vedevo altro che un deserto intorno a me, non concepivo come ci si potesse assoggettare alle cure che la vita quotidianamente esige, pur essendo del tutto certi che non sarebbero approdate mai a niente. Questo pensiero mi occupava tanto che io credevo per causa sua quasi di perdere la ragione. […]
In verità, mio caro amico, la gente non conosce affatto il proprio reale interesse. Io converrò, se si vuole, che la virtù, come tutto ciò che è bello e tutto ciò che è grande, non sia che un’illusione. Ma se questa illusione fosse comune, se tutti gli uomini credessero di potere e volessero essere virtuosi, se fossero compassionevoli, caritatevoli, generosi, magnanimi, pieni d’entusiasmo; in una parola, se tutti fossero sensibili (giacché io non faccio alcuna differenza tra la sensibilità e quello che si chiama virtù), non si sarebbe forse più felici?[…]
Nell’amore, tutte le gioie che provano le animi volgari, non valgono il piacere che dà un solo istante di rapimento e d’emozione profonda. Ma come far sì che questo sentimento sia duraturo, o che si rinnovi spesso nella vita? dove trovare un cuore che gli corrisponda? In più d’una occasione io ho espressamente evitato per qualche giorno di incontrare l’oggetto che mi aveva affascinato in un sogno delizioso. Io sapevo che quel fascino sarebbe svanito accostandosi alla realtà. Tuttavia io pensavo sempre a quell’oggetto, ma non lo consideravo per quel che era; lo contemplavo nella mia immaginazione, tale quale mi era apparso nel sogno. Era una follia? Son io romantico? Voi giudicherete. […]
Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico? e se la felicità non esiste, che cos’è dunque la vita? Io non ne so nulla; vi amo, vi amerò sempre così teneramente, così fortemente come ho altre volte amato quei dolci oggetti che la mia immaginazione si compiaceva di creare, quei sogni nei quali voi fate consistere una parte della felicità. In effetti non spetta che all’immaginazione di procurare all’uomo la sola specie di felicità positiva di cui egli sia capace. È vera saggezza cercare questa felicità nell’ideale, come voi fate. Quanto a me, io rimpiango il tempo in cui mi era concesso ricercarla, e vedo, con una sorta di sgomento, che la mia immaginazione sta diventando sterile, e mi rifiuta tutto quel soccorso che mi offriva in passato.[…]»
Colpisce il tono affettuoso che anima il testo, caratteristico delle lettere in cui Leopardi si rivolge ad amici con cui condivide profondamente pensieri, esperienze di vita, aspettative e domande sull’esistenza. Jacopssen è ripetutamente apostrofato proprio con il termine «amico», colui che ha «confidenza» con l’altro e conosce «i segreti di un cuore», che è oggetto di «devozione» e del «più vivo attaccamento». Appare interessante il fatto che l’amicizia è così richiamata proprio in una lettera in cui Leopardi mette a tema la domanda di felicità che alberga nel cuore dell’uomo. Il poeta descrive la grandezza dell’attesa dell’animo umano e, nel contempo, l’esperienza del deserto, dell’inutilità e dell’inanità del tutto, del vuoto dell’esistenza, della vanitas vanitatum di cui parla il libro di Qoelet. Le cose appaiono sempre insufficienti e inadeguate alla capacità dell’animo. La consapevolezza del proprio desiderio, della precarietà del proprio essere e della finitudine dei beni non si traduce, però, in cinismo o in scetticismo, ma in domanda. Così Leopardi chiede all’amico Jacopssen: «Che cos’è, dunque, la felicità? E se la felicità non esiste che cos’è dunque la vita?». Non è finta modestia o falsa umiltà, presente spesso in molti intellettuali o in tanti uomini di cultura, ma desiderio autentico di attingere una possibile risposta dall’esperienza di un amico. La domanda più vera e connaturata al cuore dell’uomo riguarda la felicità, ma l’uomo può sostituirla con l’ambizione e la pretesa di essere buono o di essere sempre migliore in un titanismo che non dà sollievo all’umana arsura oppure la rimpiazza con altre domande che riducono la statura della domanda di felicità o con risposte preconfezionate, in un atteggiamento da «bruto» dantesco o da «gregge» leopardiano. Nessuno sforzo umano può riuscire a colmare quel desiderio di infinito che sentiamo nel cuore né tanto meno può giungere a cogliere da solo la natura di quell’infinito a cui l’uomo anela.
Per questo l’atteggiamento del cuore che emerge in questa lettera potrebbe preludere alla conversione. Leopardi, infatti, si rende conto che è vera saggezza cercare la felicità nell’Ideale e ha nostalgia dell’epoca in cui ancora perseguiva ciò. Il Recanatese riconosce che l’amico affronta la questione con «ragionevolezza e profondità».
Che cos’è questo Ideale a cui fa riferimento il poeta? Una risposta plausibile potrebbe già comparire nella lettera. Leopardi, infatti, dice chiaramente che la vita non può essere veramente tale senza l’esperienza di un grande amore. Quando uno ha sperimentato un grande amore, tutto il resto appare piccino. Dirà al riguardo il filosofo Romano Guardini: «Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito». Per questo, a detta di Leopardi, nella vita non bisogna perdersi in amori volgari, ma occorre ricercare l’amore vero, l’emozione profonda, quella che tocca il cuore. Perché la vita possa definirsi davvero tale deve essere caratterizzata dal «sempre amare, sempre sperare». L’uomo deve, perciò, trovare o imbattersi in qualcosa o qualcuno su cui riversare il proprio amore, che diventi così oggetto della propria sensibilità. In questo caso l’uomo vivrebbe con entusiasmo. Se l’uomo si abbandonasse all’entusiasmo, alla virtù, alla generosità, sarebbe più felice. Questa lettera che è la prova più incontestabile che la domanda di felicità non è venuta meno in Leopardi anche nei momenti di maggiore sconforto.