La riapertura del caso Orlandi è una tempesta mediatica
Da troppi commentatori la nuova indagine sulla ragazza scomparsa nel 1983 è accostata alla morte del Papa emerito. Giocando sull'ambiguità si ripetono le consuete insinuazioni circa l'omertà o peggio la complicità da parte della Santa Sede. Che invece non ha mai ostacolato la ricerca della verità. In realtà questa vicenda ha un unico collegamento con la morte del Papa emerito: la mediaticità. E la mediaticità è anche ciò che ha contribuito a rendere ancora così complicato il caso della figlia del dipendente vaticano.
Quando Emanuela Orlandi scomparve il 22 giugno 1983, Joseph Ratzinger era arrivato a Roma da poco più di un anno per assumere l'incarico di prefetto per la Congregazione per la dottrina della fede. Questo dicastero ha il compito di tutelare la dottrina sulla fede e i costumi nella Chiesa ed è il più importante della Curia romana, ovvero l'apparato amministrativo della Santa Sede che ha una distinta soggettività giuridica internazionale rispetto allo Stato della Città del Vaticano.
Bisogna partire dall'abc, purtroppo, prima di parlare di quanto è avvenuto in questa settimana a seguito della notizia dell'apertura di un fascicolo sul caso Orlandi da parte del promotore di giustizia che nello Stato della Città del Vaticano svolge l'ufficio di pubblico ministero. Incredibilmente, infatti, la notizia dell'indagine vaticana sulla scomparsa della quindicenne Emanuela viene collegata da intervistati, intervistatori e commentatori vari alla morte del Papa emerito. La grande responsabilità è senz'altro di quei giornalisti che o giocando sull'ambiguità o peccando di (grande) ignoranza avanzano con superficialità quest'accostamento e tirano in ballo una vicenda di cronaca nera di 40 anni fa nel disagio espresso da monsignor Georg Gänswein per alcune decisioni di Francesco nel governo della Chiesa universale.
Emanuela Orlandi, occorre ricordarlo, scomparve a Roma, su territorio italiano, all'uscita della scuola di musica Tommaso Ludovico da Victoria in piazza Sant'Apollinare. L'ultima volta fu vista dalla sua compagna di corso, Raffaella Monzi, che raccontò di averla vista alla fermata dell'autobus e di aver chiacchierato con lei di un'offerta di lavoro che aveva ricevuto e per la quale si sarebbe dovuta incontrare con qualcuno. Poi, più nulla. Di quell'offerta di lavoro ricevuta mentre andava a lezione, Emanuela parlò anche in una telefonata fatta alla sorella Federica quello stesso pomeriggio. Dopo la presentazione della denuncia di scomparsa e l'avvio delle ricerche, due giorni dopo venne pubblicato sul quotidiano Il Tempo il primo trafiletto che riportava anche il numero di telefono di casa degli Orlandi per fornire informazioni.
In questa prima fase, tra le chiamate di numerosi sciacalli, destò attenzione la telefonata di un tale che si presentò come Pierluigi, riferendo di una ragazza incontrata dalla sua fidanzata a piazza Navona che aveva alcuni particolari in comune con Emanuela. Pierluigi chiamò più di una volta e all'invito dello zio della ragazza scomparsa – incaricato di raccogliere le segnalazioni – di incontrarsi in Vaticano, dove abitavano, replicò: «In Vaticano? Ma lei è un prete?».
La storia di questo caso di cronaca nera cambiò definitivamente domenica 3 luglio 1983 quando Giovanni Paolo II, al termine dell'Angelus, pronunciò il primo appello per la ragazza residente nello Stato di cui era sovrano esprimendo «viva partecipazione» e soprattutto chiamando in causa il «senso di umanità di chi abbia responsabilità in questo caso». Le parole del Papa dunque avvalorarono per la prima volta la pista del sequestro di persona e assegnarono una dimensione internazionale a quella scomparsa.
Di fronte all'interesse del Papa, nel clima di Guerra Fredda ancora imperante, c'è chi volle speculare sulla sorte della ragazza: il 5 luglio 1983, infatti, arrivò alla Sala Stampa della Santa Sede una chiamata da un uomo con un accento (impossibile dire se reale o camuffato) straniero, poi ribattezzato "l'amerikano" dai giornalisti. Il telefonista parlò per la prima volta di rapimento compiuto da una sedicente organizzazione di cui lui avrebbe fatto parte e di cui Pierluigi ed un altro telefonista dei giorni precedenti (Mario) sarebbero stati gli emissari.
Anche di recente quella telefonata è tornata alla ribalta per un'intervista di monsignor Carlo Maria Viganò – all'epoca in Segreteria di Stato – concessa ad Aldo Maria Valli nella quale l'ex nunzio la collocò la sera stessa della scomparsa, scatenando inevitabili accuse di omertà nei confronti della Santa Sede. In realtà, con ogni probabilità Viganò non fu assistito dalla memoria – come peraltro riconobbe lui stesso in un'altra risposta dell'intervista – dal momento che quel giorno il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, monsignor Romeo Panciroli che avrebbe informato il prelato della telefonata ricevuta, si trovava in realtà in Polonia per la visita apostolica di Wojtyla.
Comunque, sempre il 5 luglio il misterioso telefonista chiamò anche a casa Orlandi per rivendicare il rapimento compiuto dalla sua presunta organizzazione e per provarlo fece sentire allo zio un nastro di una ragazza che ripeteva il nome della scuola di Emanuela, aggiungendo che per la liberazione della ragazza avrebbe trattato con «funzionari del Vaticano». Il giorno successivo, dopo che nulla era filtrato alla stampa sul contenuto di queste telefonate, una nuova chiamata arrivò stavolta alla redazione romana dell'Ansa con la rivendicazione di rapimento e l'indicazione di un messaggio lasciato in piazza del Parlamento. Sotto un cestino venne ritrovata una busta con la fotocopia della tessera d'iscrizione di Emanuela alla scuola di musica e una ricevuta di pagamento, oltre al nastro fatto ascoltare nella telefonata a casa Orlandi.
La contropartita richiesta era il rilascio di Ali Ağca, l'attentatore turco del Papa. Da allora in poi, nell'Italia che non si era ancora messa del tutto alle spalle l'epoca degli Anni di Piombo e che continuava ad essere coinvolta nella Guerra Fredda, quel caso di cronaca nera avrebbe assunto nuovi connotati e sarebbe stato associato per sempre alla pista di un intrigo internazionale in cui era coinvolta la Santa Sede. Quest'ultima, peraltro, credette alla veridicità della pista come dimostrato dai nuovi appelli di Giovanni Paolo II ai rapitori: in totale, alla fine, furono ben otto.
Con la cronaca dei fatti relativi al caso in sé vale la pena fermarsi qui perché è impossibile orientarsi nel diluvio di ipotesi, rivelazioni, confessioni, menzogne che si sono susseguite da allora fino ad oggi. L'unico elemento sicuro è che non è mai esistita alcuna prova che la ragazza fosse ancora viva dopo il 22 giugno 1983 e purtroppo Emanuela non ha più fatto ritorno nella sua casa di via Sant'Egidio. Così come appare acclarato che ad aprire il vaso di Pandora di ricatti e depistaggi fu il primo appello all'Angelus del Papa senza il quale, presumibilmente, gli unici sciacalli nel caso sarebbero rimasti i telefonisti di bassa lega dei giorni iniziali, prima ignari e poi indifferenti al fatto che la ragazzina fosse residente in Vaticano.
A smentire la vulgata sull'omertà vaticana è la collaborazione che le autorità del Governatorato dimostrarono nell'inchiesta della magistratura italiana condotta da Domenico Sica (subentrato dopo l'appello del Papa probabilmente anche perché esperto di terrorismo internazionale) e che arrivò al punto da concedere persino ai servizi segreti italiani di accedere in Vaticano, intercettare il telefono di casa e il centralino per ascoltare le chiamate dei presunti rapitori. Una scelta nient'affatto scontata in un periodo storico in cui si era nel vivo delle conseguenze del crack Ambrosiano e di lì a breve sarebbero partite dalla procura di Milano tre richieste di estradizione in Italia per tre dirigenti dello Ior respinte con «disappunto e meraviglia».
Negli ultimi anni, mentre aumentavano i buchi nell'acqua sul caso Orlandi che però hanno contribuito a lasciare il sospetto nell'opinione pubblica di una complicità vaticana, la Santa Sede ha continuato a dare prova di disponibilità prima con il ritrovamento dei resti in un locale della nunziatura apostolica in Italia (che risalivano addirittura all'epoca romana!), poi con l'apertura della tomba del cimitero teutonico a seguito di un'anonima segnalazione (di nuovo un nulla di fatto), infine ora l'apertura di un fascicolo d'indagine da parte del promotore di giustizia.
Ma su cosa si concentreranno le indagini? Come chiarì già il 14 aprile del 2012 l'allora direttore della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, tutte le informazioni in possesso del Vaticano sono già state trasmesse ai titolari dell'indagine italiana e tutti i prelati che all'epoca ebbero a che fare con la vicenda per i ruoli rivestiti in Curia hanno già fornito deposizioni che sono a disposizione degli uffici giudiziari italiani.
Il modo in cui è stata presentata dai media la notizia dell'iniziativa del promotore di giustizia vaticano spinge a essere decisamente poco ottimisti. Questa vicenda ha un unico collegamento con la morte del Papa emerito: la mediaticità. E la mediaticità, purtroppo, è anche ciò che ha contribuito a rendere ancora così complicato il caso della figlia del dipendente della prefettura della Casa Pontificia scomparsa a Roma 40 anni fa, come dimostrato da quanto accadde dopo il primo appello di Giovanni Paolo II.
In questi giorni si sono letti articoli ed interviste in cui viene tirato in ballo monsignor Georg Gänswein, già alle prese con le polemiche scaturite dalle rivelazioni su Francesco, perché nel suo libro ha scritto che «il fantomatico dossier (sul caso Orlandi, ndr) non è stato reso noto unicamente perché non esiste». Per capire che l'arcivescovo tedesco sta semplicemente dicendo la verità basta rileggersi l'appunto che padre Lombardi gli inviò ad inizio 2012 per recensire un libro del fratello della ragazza e che fu sottratto dal maggiordomo papale Paolo Gabriele per essere diffuso ai media. Da ciò che scrisse nel documento che – ricordiamo – doveva rimanere riservato, è evidente che l'allora direttore della Sala Stampa non custodisse alcun segreto e che lo stesso Gänswein chiedendo informazioni a lui non fosse certo sospettabile di possedere un dossier contenente la verità su uno dei più grandi misteri d'Italia.
Fino ad ora, la gestione comunicativa da parte della Santa Sede di fronte agli attacchi da parte dei media nazionali ed internazionali è stata all'insegna di una timida – e perciò inefficace – difesa. Dopo la notizia dell'apertura delle indagini in Vaticano e le pesanti illazioni comparse su giornali e tv dirette a correlare quest'iniziativa con la recente morte di Benedetto XVI non c'è stata nemmeno quella.
Il messaggio che un certo tipo di stampa cerca di far passare è che la Santa Sede, con la mossa dell'ufficio del promotore di giustizia, abbia deciso di far trasparenza su un caso associato negativamente al Vaticano proprio ora che è morto il Papa emerito e l'insistenza sul presunto dossier in possesso del suo segretario particolare sembra dimostrarlo. La comunicazione ufficiale non può permettersi il silenzio, ma dovrebbe piuttosto ricordare una volta per tutte come la Santa Sede ed il Governatorato mai hanno ostacolato la ricerca della verità nella scomparsa della ragazza e che al massimo può essere imputata al Vaticano l'ingenuità di aver dato per certa la pista dell'intrigo internazionale al punto da lasciare che Giovanni Paolo II pronunciasse quegli appelli ai presunti rapitori. Così come si dovrebbe riconoscere la sconsideratezza e l'insensibilità di alcuni prelati – anche importanti, come il cardinale Silvio Oddi – che in interviste fornirono loro ipotesi da bar su questa storia, senza rispetto per il dolore della famiglia e anche per l'istituzione che rappresentavano.
Perché se invece fosse vera l'accusa sobillata dai media di un'omertà o peggio ancora di una complicità delle autorità vaticane in questo crimine ai danni di una quindicenne cresciuta tra le Sacre Mura, allora non basterebbe certo aprire un'inchiesta giudiziaria dopo 40 anni per una riabilitazione. Ma opinioni e suggestioni anziché fare chiarezza aumentano solo la confusione, mentre invece i dati oggettivi evidenziano che in Vaticano non c'è stato alcun muro di gomma sulla vicenda al contrario di quanto pensa la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica. Chi ha la responsabilità di una penna o di un microfono dovrebbe capire che attaccare il Vaticano con ipotesi e insinuazioni è facile, ma con questo modo di agire è altrettanto facile causare più dolore ad una famiglia che ha già sofferto abbastanza.