La prima edizione degli Oscar dopo l'era woke
I primi Oscar non politici. Che il vento stia cambiando veramente? Sconfitti gli acchiappa-premi Conclave ed Emilia Perez, vince un piccolo film indipendente, Anora.

Gli Oscar del 2025 non fanno molto parlare di sé, non fanno notizia, non fanno polemica. Una ragione molto semplice è che non c’è stato un mega-vincitore. Contrariamente alle edizioni scorse, nessuno ha preso un numero spettacolare di statuette. C’è un chiaro vincitore, Anora: miglior film, miglior attrice protagonista (Mikey Madison), miglior regista, miglior editing e miglior sceneggiatura originale (sempre Sean Baker). Cinque statuette di cui tre all’autore. Poi il miglior attore è meritoriamente Adrien Brody, per The Brutalist, anche se avrebbe potuto vincerlo anche per qualsiasi sua interpretazione nel passato (come quello vinto nel 2003 per Il pianista, di Polanski), la miglior attrice non protagonista è Zoe Saldaña per Emilia Perez e il miglior attore non protagonista Kieran Culkin, per A Real Pain. Se avete già sentito questo cognome, non vi sbagliate: Kieran è il fratello di Macaulay Culkin, il bambino di Mamma ho perso l’aereo. Non manca Conclave che prende l’Oscar per miglior sceneggiatura non originale.
Ma Conclave ed Emilia Perez, sono i due grandi sconfitti di questa stagione. Il film kolossal di fanta-Chiesa e il musical trans prodotto da Netflix dovevano essere le due pellicola-bandiera degli Oscar 2025, erano concepiti per acchiappare premi da giurie politicizzate. Entrambi avevano tutte le caselle a posto: storia di trans (intersex, nel caso di Conclave), l’uno contro la mascolinità tossica, rappresentata dalla mafia messicana, l’altro contro la mascolinità tossica clericale. In Emilia Perez, la transizione da un sesso all’altro coincide anche con una conversione, dalla malavita alla legalità. In Conclave, le redini vengono prese da un nuovo Papa che, per la prima volta, non è uomo, quindi, secondo questa visione, ha l’umanità necessaria a guidare i fedeli per la pace e per i poveri.
Delle tredici candidature di Emilia Perez, solo due si sono tradotte in statuette d’oro: una importante, per Zoe Saldaña, l’altra un po’ meno per la miglior canzone, El Mal, di Clement Ducol e Camille. Conclave era candidato a otto premi e ne ha vinto uno solo, quello per la sceneggiatura non originale, appunto.
Anora è la storia di una prostituta che si sposa con un suo cliente, di cui si innamora, ma poi deve vedersela con i ricchi parenti di lui venuti dalla Russia per far annullare le nozze. Si tratta di una storia personale, intima, non c’è un messaggio politico o sociale o femminista. Notevole che sia una piccola produzione (con un budget di 6 milioni di dollari), un lavoro quasi artigianale di Sean Baker, che ha fatto quasi tutto da solo e ha battuto i colossi di Hollywood, quelli più ideologizzati, proprio perché devono restare nel solco del potere politico.
Il flop delle due produzioni più woke, fra cui soprattutto quella di Netflix, può essere uno di tanti altri segnali di cambiamento. “Go woke, go broke” (se adotti la filosofia woke, fallisci) è un motto in vigore da anni, in ogni commento economico. Eppure, imperterrite, le industrie dell’intrattenimento hanno continuato a proporre al pubblico inguardabili produzioni centrate solo su minoranze, donne, Lgbt, teorie della lotta di classe, teorie critiche della razza e strane trasformazioni della storia e delle fiabe, con regine d’Inghilterra nere, sirenette afro e persino una Cleopatra dell’Africa nera che ha fatto infuriare gli egiziani. Produrre un film o una serie televisiva pareva diventato solo un esercizio di riempimento di tutti i formulari del politicamente corretto. Ne manca uno? Non puoi candidarti, come stabilisce una regola, anche codificata nel 2022, in quel di Hollywood.
Da quest’anni non solo Meta inizia a rilassare le regole della moderazione (leggasi: censura) sui suoi social network, ma anche Jeff Bezos, finora campione dei woke (lo stesso che ha prodotto l’involontariamente grottesco Gli Anelli del Potere, con gli elfi neri e gli orchi vittime del razzismo), ha cambiato linea e sta dando disposizioni perché il suo quotidiano più autorevole, il Washington Post, ritorni a difendere mercato e libertà, i valori che hanno fatto grande l’America. La fine sta arrivando anche per la Disney che ha collezionato un flop dietro l’altro, finché non ha deciso di eliminare, al suo interno, la politica Dei (Diversità Equità Inclusione) e forse inizierà a cambiare musica anche nei suoi film. La Disney era campione delle cause woke, era stata la promotrice della protesta contro il governatore della Florida Ron DeSantis, contro l’eliminazione dei programmi di educazione sessuale gender nelle scuole. Ora dichiara di voler tornare alla sua “missione principale”, che è quella di una qualsiasi industria dell’intrattenimento: divertire il pubblico.