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IL ROMANZO STORICO

La preghiera e la misericordia di Dio nella peste di Manzoni

La terribile peste bubbonica del 1629-1630 è al centro de I promessi sposi. Tante le scene che destano la pietà del lettore, come quella della madre con la bambina Cecilia. Renzo assiste e prega, capendo che è l’atteggiamento più ragionevole. E poi, con l’aiuto di fra Cristoforo, perdona don Rodrigo, moribondo. Segno che anche attraverso la pestilenza, che porta via buoni e cattivi, Dio trova la via per manifestare la sua misericordia.

Cultura 20_03_2020

Ne I promessi sposi memorabile è la peste bubbonica, che iniziò a imperversare nel milanese verso la fine del 1629, introdotta dai lanzichenecchi che scesero nel lecchese.

Già nel settembre del 1629 il medico Settala segnalò casi di peste alle autorità, troppo prese dalla guerra di successione al Ducato di Mantova per prendere adeguati provvedimenti contro la diffusione del morbo. All’inizio le autorità non credettero alla presenza della peste nel territorio di Milano. Così, dall’ottobre 1629 al marzo 1630 la pestilenza agì in modo sotterraneo, non conclamato, e in pochi mesi, quando esplose la pandemia, la città di Milano venne ridotta da 130.000 abitanti a 66.000 unità. Più della metà della popolazione venne sterminata.

Ad un certo punto si diede addirittura credito alla voce che fossero gli untori a spargerla infettando le porte e le mura della città. Non era la prima volta che si dava credito a queste voci infondate. Già dal 1525 al 1630, per più volte, si era dato credito alle unzioni. Ce lo racconta Manzoni stesso.

Nel giugno del 1630 due uomini, il commissario di sanità Piazza e il barbiere Mora, vennero catturati, condannati a morte e giustiziati in modo orribile e atroce. Nel Fermo e Lucia Manzoni raccontò tutta la vicenda in maniera attendibile rifacendosi a documenti storici. Ne I promessi sposi l’autore lombardo decise di espungerla perché la riteneva una digressione troppo ampia e pesante all’interno del romanzo. Negli anni successivi Manzoni approfondì le ricerche e compose un testo autonomo, La storia della colonna infame, che venne collocato a conclusione dell’edizione de I promessi sposi del ’40, ma che sarebbe circolato poi come testo autonomo.

Nell’edizione definitiva de I promessi sposi Manzoni fece riferimento a quell’iniquo processo solo nel capitolo XXXII:

"In quel medesim’anno 1630, furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi, dove qualcheduno, dove molti infelici, come rei d’aver propagata la peste, con polveri, o con unguenti, o con malìe, o con tutto ciò insieme".

Tante sono le scene cittadine che destano la pietà umana del lettore all’interno del romanzo manzoniano. Per le vie di una Milano dominata dal disordine i monatti portano gli ammalati al lazzaretto e i morti al cimitero, sicuri in mezzo al contagio perché, avendo già contratto il morbo e guariti, si sentono immuni.

Dinanzi agli occhi di Renzo appare una delle scene più commoventi che la letteratura abbia mai raccontato: la descrizione della madre di Cecilia, bambina di nove anni, appena morta di peste. La vicenda è in realtà davvero accaduta. Ne siamo certi perché la figura è già presente nell’opera De pestilentia del cardinale Federigo Borromeo.

Manzoni così descrive la scena:

"scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo".

La donna impietosisce non solo per l’aspetto, ma anche per una bambina che porta al collo, sostenuta da un braccio, vestita di bianco come per una festa aspettata da tempo. Sembra addormentata «se non che una manina bianca a guisa di cera» spenzola «da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo» posa «sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno».

Mostrando un «insolito rispetto», un monatto le si fa incontro per deporre la bimba sul carro. La madre, però, gli consegna una borsa piena di monete perché permetta che sia lei ad accomodare la piccola di nove anni sul carro e si raccomanda: «Promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così». Poi si rivolge per l’ultima volta alla piccina:

"Addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri".

E al monatto rivolge l’ultima richiesta: «Passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola». Rientrata in casa, la madre si sdraia sul letto accanto all’altra figlia, più piccola, ancora viva, «coi segni della morte in volto». Rimane lì «a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro» non si muove. Quella sera, la morte, ovvero la «falce che pareggia tutte l’erbe del prato», sia «il fiore già rigoglioso sullo stelo» che «il fiorellino ancora in boccia», si porterà via tutte e due.

Di fronte al dolore e al mysterium iniquitatis (il mistero del male), a Renzo non rimane altro che rivolgersi a Dio: «O Signore! […] Esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!».

La preghiera è l’atteggiamento più ragionevole, diventa offerta perché Colui che ci ha dato la vita salvi quanto di più caro abbiamo.

Dopo aver assistito a questa scena pietosa, appreso della malattia dell’amata Lucia, Renzo entra nel lazzaretto ove riconosce in un frate sporco ed emaciato fra Cristoforo, che, una volta morto il Conte zio di peste, chiese e ottenne di essere trasferito a Milano per curare gli ammalati.

Il giovane sintetizza le disavventure dell’amata, il suo rapimento e la liberazione da parte dell’Innominato al frate ignaro di tutto. Fra Cristoforo cerca di avvertire Renzo dell’evenienza che Lucia sia ammalata o addirittura già morta. Il giovane manifesta allora tutta la sua rabbia nei confronti di chi ritiene responsabile di tutte le sue disavventure. Vorrebbe vendicarsi uccidendolo, ma il frate lo sprona a perdonare e a considerare che nulla è in mano nostra. Gli ricorda la sua stessa storia personale, il rimorso di coscienza che da anni lo attanaglia dopo l’omicidio del nobile. Solo quando Renzo si mostra disposto a perdonare don Rodrigo («Ah gli perdono! gli perdono davvero, gli perdono per sempre!»), il frate lo accompagna in una capanna, dove giace un uomo febbricitante e morente. Renzo vi riconosce il nemico spocchioso e aristocratico, ormai in punto di morte.

Renzo e fra Cristoforo pregano per lui e chiedono a Dio il perdono dei suoi peccati. Il frate afferma che quella malattia non è la vendetta di Dio, ma anche attraverso la pestilenza Dio manifesta la sua misericordia, perché permette al peccatore di convertirsi e di ravvedersi:

"Il sentimento che tu proverai ora per quest’uomo che t’ha offeso, sì; lo stesso sentimento, il Dio, che tu pure hai offeso, avrà per te in quel giorno. Benedicilo, e sei benedetto. Da quattro giorni è qui come tu lo vedi, senza dar segno di sentimento. Forse il Signore è pronto a concedergli un’ora di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te: forse vuole che tu ne lo preghi con quella innocente; forse serba la grazia alla tua sola preghiera, alla preghiera d’un cuore afflitto e rassegnato. Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione... d’amore!"

 Mentre lo saluta, fra Cristoforo avverte Renzo:

"Va’ ora, va’ preparato, sia a ricevere una grazia, sia a fare un sacrifizio; a lodar Dio, qualunque sia l’esito delle tue ricerche. E qualunque sia, vieni a darmene notizia; noi lo loderemo insieme".

Renzo ritrova Lucia, ormai in via di guarigione, ma ancora nel lazzaretto per accudire una vedova, la mercantessa. Tutti sanno che la storia dei due fidanzati approda alla fine al matrimonio.

La peste non ha portato via solo i cattivi della storia (il Podestà, il Conte Attilio, il Conte zio, ecc.), ma anche i cosiddetti buoni (su tutti fra Cristoforo). La peste non è stata, come pensa erroneamente don Abbondio, una sorta di mano di Dio che interviene a porre giustizia laddove non arriva la giustizia umana («È stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più»).