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SCENARI

La politica si incarta sul Senato

Sulla riforma del Senato si sta giocando una battaglia all'ultimo sangue che è perlopiù incomprensibile ai cittadini, molto più preoccupati di altri problemi. Eppure è su questo che si rischia di andare ad elezioni, e anche i cattolici non escono da questo schema. 

Politica 01_07_2014
Boschi e Renzi

Gli italiani saranno anche soddisfatti degli 80 euro in busta paga e dei continui proclami rivoluzionari del premier, ma la domanda che in molti si fanno è: a quanti effettivamente interessa la riforma del Senato? Siamo proprio sicuri che a lavoratori, pensionati, giovani, disoccupati, casalinghe, esodati, cassintegrati sta tanto a cuore questo tema? Renzi si è impuntato su questa riforma del bicameralismo e sull’introduzione di un Senato non elettivo e all’inizio della sua esperienza governativa ha perfino messo sul piatto l’ipotesi di un suo abbandono della politica in caso di insuccesso su questo fronte. La gente fatica a capire perché.

Da ieri in commissione al Senato sono in discussione i vari emendamenti, anche i più controversi, cioè quelli riguardanti il carattere non elettivo dell’assemblea di Palazzo Madama e il nodo dell’immunità. La discussione approderà in aula nei prossimi giorni.

Si è creata una fronda trasversale che attraversa vari partiti (Pd, Forza Italia e cespugli centristi) e che conta almeno una quarantina di senatori, contrari alla bozza di riforma presentata dal governo. Questi dissidenti non vogliono un Senato di nominati, un Senato delle autonomie composto da sindaci, presidenti di Regione e amministratori locali designati mediante elezioni di secondo livello. Chiedono che venga preservato il carattere elettivo del Senato. Chiedono, cioè, che i cittadini possano continuare ad eleggere i propri senatori, magari ridotti come numero.

Per quanto riguarda l’immunità, la disputa è tra chi vorrebbe abolirla del tutto e chi vorrebbe mantenerla. Entrambe le ipotesi, però, contengono delle evidenti incongruenze. Abolire l’immunità significherebbe trasformare il Senato delle autonomie in una Camera di serie B rispetto alla Camera dei deputati, creando una diversità di status tra i parlamentari di Montecitorio e quelli di Palazzo Madama. Mantenerla equivarrebbe a creare odiosi privilegi per i membri del nuovo Senato rispetto agli altri sindaci, governatori e amministratori locali. 

Non sbaglia chi osserva che forse privare i cittadini del diritto di eleggere i propri senatori non sia il modo più democratico per superare il bicameralismo perfetto; non sbaglia chi rileva che l’abolizione degli stipendi dei senatori non risolleverà di certo le sorti della finanza pubblica e che forse sarebbe stato più giusto ridurre drasticamente il numero di deputati (duecento?) e senatori (cento?) e i loro stipendi, senza però azzerarli, differenziando le funzioni delle due Camere, ma mantenendo per entrambe la stessa dignità istituzionale e preservandone il carattere elettivo.

Dietro questa battaglia che si consuma, a colpi di emendamenti, in Commissione Affari costituzionali al Senato, si celano peraltro malumori interni ai partiti e vendette personali che rischiano di mandare in frantumi il disegno riformatore.

Nel Pd cuperliani e civatiani non si rassegnano al pensiero unico renziano e provano a contrastare l’approvazione di una riforma che, così com’è, non li convince. Dentro Forza Italia l’ala di Minzolini, supportata in modo più o meno dichiarato dal capogruppo alla Camera, Renato Brunetta, si dice pronta a dare battaglia e non vuole piegarsi all’ipotesi di un Senato di nominati. Neppure i centristi e popolari come Mario Mauro cederanno.

Dunque, i numeri a Palazzo Madama potrebbero venire a mancare. I voti berlusconiani sono certamente indispensabili ma da soli potrebbero risultare insufficienti, soprattutto se l’ex Cavaliere non riuscirà a ricondurre a più miti consigli i suoi dissidenti.

E che cosa potrebbe succedere a quel punto? Salta il Patto del Nazareno? Si disintegra il disegno riformatore? Non si riforma neppure la legge elettorale? Intanto oggi inizia il semestre italiano di presidenza europea, durante il quale sarebbe un vero e proprio disonore, per Renzi e per l’Italia, immiserirsi in beghe interne di piccolo cabotaggio. Chi capirebbe un Paese costretto ad andare ad elezioni anticipate perché il premier non riesce a far passare la riforma del Senato? Quanti italiani sarebbero disposti a dare ancora fiducia a Renzi se forzasse la mano su questo punto?

Neppure al premier conviene far saltare il tavolo. In questa fase storica è impegnato ad accrescere il suo peso e prestigio internazionale (quale migliore occasione del semestre di presidenza?) e ogni frizione interna, in grado di distoglierlo dal fronte europeo, sarebbe deleteria. In più, il consenso al Pd va incrementandosi, considerata la pattuglia di transfughi di Sel in marcia verso i lidi renziani. Senza dimenticare che il ricompattamento del centro-destra appare ancora incerto e nebuloso. Se la Mogherini lascerà la Farnesina per assumere il ruolo di commissario europeo per gli affari esteri, il conseguente rimpasto potrebbe provocare l’assottigliamento della delegazione del Nuovo Centrodestra di Alfano al governo e spostare verso sinistra l’asse dell’esecutivo. 

In definitiva, lo scenario più realistico rimane quello di un consolidamento del quadro politico, anche in vista dell’uscita di scena del Presidente della Repubblica, prevista per gli inizi del 2015, a conclusione del semestre europeo a guida italiana. Le dimissioni di Napolitano, nelle intenzioni di quest’ultimo (e dello stesso Renzi), dovrebbero segnare la fine di una fase emergenziale e, probabilmente, l’ingresso nella cosiddetta Terza Repubblica, con uno Stato riformato, almeno sulla carta. Ma le incognite sono sempre dietro l’angolo.