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LETTERATURA

La poetessa Szymborska e la giusta ironia

Nei componimenti dell'autrice polacca scomparsa mercoledì c'è la saggezza di uno spirito forte e sereno dinanzi alle tempeste della vita.

Attualità 03_02_2012
Szymborska
Quando, nel 1996, si diffuse la notizia dell’assegnazione del Nobel per la letteratura a Wislawa Szymborska, la poetessa polacca scomparsa il 1 febbraio, molti, anche fra i cosiddetti “lettori forti”, scossero la testa, scettici, biasimando un’ennesima volta, in cuor loro, le scelte dell’Accademia svedese: troppo cerebrali, troppo di nicchia, sempre pronte a premiare illustri sconosciuti per il gusto di creare un “caso” letterario rimarcando il gap incolmabile fra un’élite di “felici pochi” e la massa dei lettori, ancorché volenterosi.

Eppure, Wislawa Szymborska non era una novità nel panorama poetico europeo; soltanto, per apprezzarla, serviva un palato davvero fine. La sua poesia, lieve, ironica, a tratti paradossale, dal tono sommesso, sottile, eppure di tenuta dura, come un filo d’acciaio, affronta temi filosofici, esistenziali e civili. In Italia, le sue liriche iniziarono a essere conosciute su scala un po’ più vasta a partire da Vista con granello di sabbia (Adelphi 1998), scelta di componimenti approvati dall’autrice, che ripercorrono la sua produzione dal 1957 sino al Nobel, mentre già alcune sue poesie erano state rese note grazie a Scheiwiller. Sull’onda della nuova popolarità, poi, sempre Adelphi, nel 2004, pubblicò il Discorso all’ufficio degli oggetti smarriti. Solitamente, rifuggo dal parlare di poesia “al femminile”. Il poeta è poeta, o meglio, è, e basta. E non mi piace pensare a una poesia “di poeti” e a una poesia“di poetesse”, perché è sempre sottinteso il dubbio che ci sia una distinzione, che qualcuno scriva poesia di serie B e altri di serie A. Eppure, nelle liriche delle Szymborska troviamo un’attenzione occhiuta e insieme affettuosa per la minuteria, per gli oggetti dell’esistenza quotidiana, una cura straordinaria per il dettaglio di vita vissuta, in quanto “porta” per iniziare a parlare di cose importanti, senza che mai l’autrice sia tentata di assumere il tono di chi si mette in cattedra, senza solennità e insieme, senza mai nemmeno l’atteggiamento di chi “non si prende sul serio”.

Anzi, in Wislawa Szymborska troviamo una piena e felice equidistanza da questi due poli, e insieme la netta consapevolezza dell’importanza estrema di quello che dice; e questo mi sembra davvero condensare il cuore di un’attenzione tutta femminile, nel senso migliore del termine, sul mondo e sulla vita. Accennavamo all’ironia sommessa con cui la poetessa, quasi “dissimulando” -secondo l’etimo del greco eironeia- sapeva dire cose difficili, prendendo il volo, a partire da un inizio piano e quotidiano, per innalzare, millimetro dopo millimetro, il suo discorso. Rileggiamo allora una poesia, forse, fra le più belle, Possibilità (trad. di P. Marchesani): dopo un inizio colloquiale, volutamente ripetitivo, piano sino alla prosasticità, sentiamo il tono, l’occhio interiore dell’autrice staccarsi da terra, con un movimento lento e insieme vertiginoso: «Preferisco il cinema /Preferisco i gatti. /Preferisco le querce sul fiume Warta. /Preferisco Dickens a Dostoevskij. /Preferisco me che vuol bene alla gente /a me che ama l’umanità».

C’è, in queste parole, tutto il distillato della sapienza di chi, nella sua lunga vita, ha capito che l’ “umanità” è un qualcosa di astratto, troppo grande nella sua genericità, e che a volte, la solennità del verbo “amare” occulta grande distacco: meglio “voler bene” (un’espressione così diretta, così calda, così piena di familiarità affettuosa e attenta), alla “gente”, tanto più concreta dell’“umanità”. Poi, Possibilità continua: «Preferisco in amore gli anniversari non tondi/da festeggiare ogni giorno» –un’altra grande verità detta con tono leggero e colloquiale, ma alzando sempre più il tono sino alla quieta esplosione finale; «Preferisco avere delle riserve./Preferisco l’inferno del caos all’inferno dell’ordine./Preferisco le favole dei Grimm alle prime pagine./Preferisco foglie senza fiori a fiori senza foglie./Preferisco i cani con la coda non tagliata./Preferisco gli occhi chiari, perché li ho scuri (…) / Preferisco toccare ferro./Preferisco non chiedere per quanto ancora e quando./Preferisco prendere in considerazione perfino la possibilità/che l’essere abbia una sua ragione».

Ugualmente paradigmatica è Foglietto illustrativo (da Ogni caso, 1972, trad. di P. Marchesani): «Sono un tranquillante./Agisco in casa,/funziono in ufficio,/affronto gli esami,/mi presento all’udienza,/incollo con cura le tazze rotte/devi solo prendermi,/farmi sciogliere sotto la lingua,/devi solo mandarmi giù/con un sorso d’acqua./ So come trattare l’infelicità,/ come sopportare una cattiva notizia,/ridurre l’ingiustizia,/rischiare l’assenza di Dio,/ scegliere un bel cappellino da lutto./Che cosa aspetti -/fidati della pietà chimica./Sei un uomo (una donna) ancora giovane,/dovresti sistemarti in qualche modo./ Chi ha detto/ che la vita va vissuta con coraggio?/ Consegnami il tuo abisso -/lo imbottirò di sonno./Mi sarai grato (grata)/ per le quattro zampe su cui cadere./Vendimi la tua anima./Non ci sarà un altro acquirente./Un altro diavolo non c’è più». La disperazione del vivere, la tentazione di affossare tutto, coraggio, volontà, speranza, viene resa splendidamente, dando voce – come altre volte accade nella poesia della Szymborska- agli oggetti.

In un mondo che dell’anima sembra non sapere più cosa farsene – se mai l’ha saputo, se mai è stato meno crudele – tanto che ormai impallidisce sino a svanire la tradizionale figura del demonio cui “vendere” l’anima in cambio della felicità terrena, la prima tentazione di chi soffre è tuffarsi dentro la “pietà chimica”. In fondo, è la tentazione di sempre, aggiornata ai tempi: fuggire da responsabilità e dolori, anestetizzandosi con un tranquillante, o con uno dei tanti moderni feticci dall’analoga funzione: non a caso questa fuga dalla pesantezza del vivere viene resa facendo coniugare al “foglietto illustrativo” i verbi alla prima persona: «Mi presento / affronto / incollo».
Eppure, tutta la lirica, che racconta di una disperazione spaventosa, è raccontata con un tono lieve e insieme capace di convincerci dell’idea della Szymborska, che cioè non saremmo uomini e donne veri e completi se accettassimo “quattro zampe su cui cadere” e il “sonno”, cioè la garanzia a prescindere di non ammaccarci troppo in questa vita.

Questo tono civile, pacato, quasi quotidiano nella scelta del lessico, si ritrova nel discorso, di una semplicità disarmante e cartesiana, tenuto in occasione della consegna del Nobel, di cui vale la pena riportare uno stralcio: «In questionari o in conversazioni occasionali, quando il poeta deve necessariamente definire la propria occupazione, egli indica un genere ‘letterato’ o nomina l’altro lavoro da lui svolto. La notizia di avere a che fare con un poeta viene accolta dagli impiegati o dai passeggeri che sono con lui sull’autobus con una leggera incredulità e inquietudine. Suppongo che anche un filosofo susciti un eguale imbarazzo. (…) È significativo che si producano di continuo molti film sulla biografia di grandi scienziati e grandi artisti (… ) È possibile mostrare con un certo successo il lavoro di taluni scienziati: laboratori, strumentazione varia, meccanismi attivati riescono per un po’ a catturare l’attenzione degli spettatori. (…) I film sui compositori sono riempiti dalla musica (…). Tutto questo è ancora ingenuo e non dice nulla su quello strano stato d’animo popolarmente detto ‘ispirazione’, ma almeno c’è di che guardare e di che ascoltare. Le cose vanno assai peggio per i poeti. Il loro lavoro non è per nulla fotogenico. Una persona seduta al tavolino o sdraiata sul divano fissa con lo sguardo immobile la parete o il soffitto, di tanto in tanto scrive sette versi, dopo un quarto d’ora ne cancella uno, e passa un’altra ora in cui non accade nulla… Quale spettatore riuscirebbe a reggere un simile spettacolo? Ho menzionato l’ispirazione. Alla domanda su cosa essa sia, ammesso che esista, i poeti contemporanei danno risposte evasive. Non perché non abbiano mai sentito il beneficio di tale impulso interiore. Il motivo è un altro. Non è facile spiegare a qualcuno qualcosa che noi stessi non capiamo. Anch’io talvolta, di fronte a questa domanda, eludo la sostanza della cosa. Ma rispondo così: l’ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo di individui visitati dall’ispirazione. Sono tutti quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia (…) Malgrado le difficoltà e le sconfitte, la loro curiosità non viene meno. Da ogni nuovo problema risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi interrogativi. L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante “non so”. (…) Apprezzo tanto due piccole paroline: ‘non so’. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra. Se Isaak Newton non si fosse detto ‘non so’, le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia connazionale Maria Sklodowska Curie non si fosse detta “non so” sarebbe sicuramente diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe trascorso la vita svolgendo questa attività, peraltro onesta. Ma si ripeteva “non so” e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca».

C’è tutta la dignità di uno spirito forte e coraggioso, che non si adagia nel giardinetto asfittico, ma comodo, delle sue certezze, nel saper dire “non so”: quanti lo sanno dire, oggi? E quanti sanno accompagnare queste due paroline con quello sguardo soavemente feroce sulla realtà che aveva Wislawa Szymborska?