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STATI UNITI

La pillola abortiva resta, ma la Corte Suprema non chiude i giochi

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La Corte Suprema degli USA ha deciso all’unanimità che un gruppo di medici non ha i requisiti per agire in giudizio contro la liberalizzazione del mifepristone. Ma la sentenza lascia aperta la porta ad altri ricorsi, in primis delle donne danneggiate dalle pillole abortive.

Vita e bioetica 15_06_2024
Corte Suprema USA (ImagoEconomica)

Con una decisione all’unanimità (9-0), la Corte Suprema degli Stati Uniti ha bocciato la causa intentata nel 2022 da un’ampia coalizione di medici pro vita contro l’approvazione e progressiva liberalizzazione delle pillole abortive a base di mifepristone.

Va detto subito che la decisione, pubblicata giovedì 13 giugno, non entra nel merito, ma si ferma sul piano delle procedure processuali. I giudici hanno infatti ritenuto che i medici dell’Alleanza per la Medicina Ippocratica e gli altri ricorrenti non abbiano i requisiti per agire in giudizio contro le regole sul mifepristone approvate via via dalla Food and Drug Administration (FDA), l’ente governativo statunitense per la regolamentazione del cibo e dei farmaci. E questo perché, secondo la Corte Suprema, i ricorrenti non sono riusciti a dimostrare di aver subìto un danno personale concreto dalle regole introdotte dalla FDA.

Allo stesso tempo la porta rimane aperta a eventuali nuovi ricorrenti con il requisito di cui sopra, cioè portatori di uno specifico interesse personale. È la stessa sentenza, redatta da Brett Kavanaugh, a chiarirlo: «Rinviamo il caso a ulteriori procedimenti in accordo con questo giudizio», si legge nelle righe conclusive della sentenza, che ribalta la decisione dell’agosto 2023 della Corte d’Appello per il Quinto Circuito.

L’argomentazione della Corte Suprema ruota attorno all’articolo III della Costituzione e al collegato principio della separazione dei poteri, per cui il potere giudiziario si può esprimere solo su casi specifici. In pratica l’art. III, scrive Kavanaugh, «esclude i ricorrenti che potrebbero avere solo un’obiezione generale legale, morale, ideologica o politica rispetto a una particolare azione del governo».

Per i giudici, il difetto del ricorso dell’Alleanza per la Medicina Ippocratica è che cerca di sfidare la FDA sulla «regolamentazione di altri. Nello specifico, le regole della FDA si applicano ai medici che prescrivono il mifepristone e alle donne incinte che lo assumono. Ma i medici e le associazioni mediche ricorrenti non prescrivono né usano il mifepristone. E la FDA non ha imposto ai ricorrenti di fare alcunché o di astenersi dal fare qualche cosa».

Prosegue la sentenza: «Poiché i ricorrenti non prescrivono, producono, vendono o pubblicizzano il mifepristone né sponsorizzano un farmaco concorrente, i ricorrenti non subiscono danni monetari diretti dalle azioni della FDA che ammorbidiscono la regolamentazione del mifepristone». Similmente, alla luce del fatto che non usano la pillola abortiva, i medici pro vita «non possono ovviamente subire danni fisici» da questa liberalizzazione. Per quanto detto, la Corte Suprema ritiene appunto che i ricorrenti manchino di legittimazione processuale. E ciò sebbene gli stessi giudici riconoscano che «molti cittadini, compresi i medici qui ricorrenti, hanno sincere preoccupazioni e obiezioni riguardo ad altri che usano il mifepristone e ottengono aborti».

Ad ogni modo, il riferimento ai danni fisici legati all’uso del mifepristone – commercializzato in Italia sotto il nome di Ru486 – rimane centrale. Questi danni sono comprovati dalla letteratura scientifica e dai dati della stessa FDA, che registra 32 pazienti morte negli Stati Uniti dal 2000 – anno dell’approvazione del mifepristone – al 31 dicembre 2022. Nello stesso periodo si contano ufficialmente altri 4218 effetti avversi gravi, tra cui ospedalizzazioni (1049), emorragie talmente severe da richiedere trasfusioni (604) e infezioni (418). Ma si tratta di dati ampiamente sottostimati, visto che dal 2016 chi prescrive il mifepristone è tenuto solo a riportare eventuali decessi materni.

L’ampia realtà di questi danni, come detto, rimane centrale. Infatti, nulla vieta che nel futuro prossimo delle donne danneggiate dal mifepristone possano ricorrere in tribunale contro questa dissennata liberalizzazione. Una liberalizzazione che non solo ha banalizzato ulteriormente l’uccisione dei bambini nel grembo materno, ma è anche stata spacciata come “sicura” da gruppi abortisti e autorità sanitarie, negli Stati Uniti e altrove, come se il mifepristone fosse una pillola qualsiasi.

Ed è sulla particolarità del mifepristone che i giudici della Corte Suprema, per la maggioranza conservatori, avrebbero potuto fare delle considerazioni diverse riguardo alla legittimazione processuale dei ricorrenti. Perché, se da un lato, appaiono fondate le argomentazioni sul requisito del danno personale concreto per agire in giudizio, dall’altro non si può oggettivamente associare il mifepristone a un vero “farmaco”, visto che lo si usa per dare la morte, per di più a degli innocenti. Il punto debole della sentenza emerge ad esempio quando si afferma che la dottrina sulla legittimazione processuale (standing) «serve a proteggere l’“autonomia” di coloro che sono più direttamente colpiti, affinché possano decidere se e come impugnare l’azione dell’imputato». Ma qui i più direttamente colpiti sono persone che non possono difendersi da sole, i nascituri.

Un ultimo punto da sottolineare. Tra le argomentazioni dei ricorrenti a sostegno della propria legittimazione processuale, c’è il timore che l’allentamento delle regole da parte della FDA possa condurre a un aumento delle situazioni di emergenza tale per cui anche i medici pro vita possano essere costretti – contro la loro coscienza – a prestare servizi legati all’aborto chimico, ad esempio per il suo completamento. La Corte Suprema ha respinto questo timore, affermando, in linea con le rassicurazioni del governo, che le leggi federali proteggono i medici dal dover «eseguire aborti o fornire un altro trattamento che viola la loro coscienza».

Ma i legali dei medici e delle associazioni pro vita hanno dato, tra l’altro, questo commento alla sentenza: «La posizione iniziale del governo era che la legge federale non avrebbe protetto i nostri medici dall’essere costretti a partecipare ad aborti. Tuttavia, alla Corte Suprema, il governo ha cambiato posizione e ha affermato che le leggi federali sulla coscienza proteggono definitivamente i medici in queste circostanze». E questa giravolta dell’amministrazione Biden spiega, secondo gli avvocati dei ricorrenti, perché la Corte Suprema si è discostata dai tribunali inferiori, decidendo di non entrare nel merito della questione. Eppure, se si parla di aborto, i fatti degli ultimi anni dovrebbero rendere chiaro a tutti dove Biden e compagni vogliano andare a parare.



LA SENTENZA

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