La persecuzione dei cristiani Hazara rifugiati in Pakistan
Appartengono a una etnia afghana minoritaria di fede perlopiù musulmana sciita e subiscono doppia persecuzione in quanto Hazara e in quanto cristiani
Per molti dei rifugiati afghani in Pakistan, fuggiti nel 2021 dopo la vittoria dei talebani, la vita è molto difficile. Se sono cristiani di etnia Hazara lo è ancora di più. Gli Hazara sono una minoranza etnica perseguitata dalla maggioranza afghana Pashtun, etnia presente anche in Pakistan. Quelli rifugiati in Pakistan,sparsi e divisi in diverse città, non sono ben visti. “Non sono accolti da nessuna parte – spiega il professor Farooq Suleria, docente presso la Beaconhouse National University di Lahore – sia i talebani che Daesh colpiscono gli Hazara in diversi modi. La loro persecuzione è una crisi continua che dura ormai da 40 anni, che dovrebbe essere trattata dalla comunità internazionale come una questione umanitaria urgente”. Per lo più sono musulmani sciiti, ma una parte di loro sono cristiani e sono loro i più colpiti. Per sopravvivere cercano di nascondere oltre alla loro appartenenza etnica soprattutto la loro fede per la quale rischiano di essere linciati: “una eventualità – spiega l’agenzia di stampa AsiaNews in un articolo pubblicato l’11 luglio – che non è inusuale in Pakistan”. Christian Solidarity Worldwide, una organizzazione non governativa impegnata nella difesa dei diritti umani, ne ha raccontato le vicissitudini in un cortometraggio intitolato “Leave no one behind” (non lasciare indietro nessuno). Tra le storie raccolte dalla Ong, garantendo l’anonimato, emblematica è quella di un uomo che nel video parla con il volto coperto: “solo poche persone sapevano che io fossi cristiano – ha raccontato – ma i miei amici musulmani mi chiedevano di riconvertirmi all’Islam. Dicevo loro che la questione non li riguardava, ma avevo molta paura”. Quando i talebani hanno cominciato a dargli la caccia perché erano venuti a sapere che era cristiano hanno trovato in casa solo sua moglie. Le hanno chiesto dove fosse suo marito e, per indurla a parlare, l’hanno torturata bruciandole le braccia con un ferro bollente, lasciandole cicatrici ancora ben visibili a mesi di distanza. “Ce ne siamo andati con solo i nostri vestiti addosso, ma arrivati a Quetta (città pakistana capoluogo del Beluchistan, n.d.A.) abbiamo incontrato grosse difficoltà – conclude l’uomo – perché i miei zii sanno che siamo cristiani, per cui chiamavano prima di noi dicendo di non ospitarci in quanto infedeli”.