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100 ANNI DI CALVINO / 9

La passione per Ariosto e per il mondo cavalleresco

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Nel 1970 Calvino scrive una rivisitazione de "L'Orlando Furioso" e anni prima ancora "Il cavaliere inesistente" che completa la trilogia de "I nostri antenati": "Una trilogia d’esperienze – dice – sul come realizzarsi esseri umani".

Cultura 19_06_2023

«Tra tutti i poeti della nostra tradizione», scrive Calvino, «quello che sento più vicino e nello stesso tempo più oscuramente affascinante è Ludovico Ariosto [1474-1533], e non mi stanco di rileggerlo» (in Tre correnti del romanzo italiano oggi tratto da Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e di società). Ariosto appare a Calvino come un poeta ilare, senza problemi (era soprannominato Ludovicus tranquillitatis ossia Ludovico della tranquillità), eppure al contempo misterioso e capace di nascondere se stesso, un poeta che approda ad una visione disincanta e disillusa della realtà  e dell’uomo (come Machiavelli), che si ostina però a disegnare in forma di fiaba.

L’amore di Calvino per Ariosto non è evasione, perché «egli ci insegna come l’intelligenza viva anche e, soprattutto, di fantasia, d’ironia, d’accuratezza formale, come nessuna di queste doti sia fine a se stessa». Anzi, queste doti permettono di meglio apprezzare vizi e virtù e sono ancora più necessarie oggi «nell’epoca dei cervelli elettronici e dei voli spaziali» (potremmo dire oggi dell’intelligenza artificiale a distanza di sessant’anni). «È un’energia volta verso l’avvenire […], non verso il passato, quella che muove Orlando, Angelica, Ruggero, Bradamante, Astolfo».

Nell’Orlando furioso Ludovico Ariosto presenta una visione dell’uomo, sintomatica di una crisi che ha ormai intaccato sia le certezze medioevali che quelle del primo Rinascimento. Fin dal primo canto del poema incontriamo la selva di dantesca memoria in cui i valorosi paladini si perdono dietro la ricerca di quel bene che è diventato per loro l’idolo principale della vita. Chi cerca l’armatura, chi il cavallo, chi la donna di cui si è innamorato, tutti cercano qualcosa che possa dissetare la loro brama di felicità. La ricerca è, però, vana.

Ariosto ribalta la queste (ricerca) medioevale, quella di Dante che segue il maestro Virgilio prima e Beatrice poi verso il Paradiso, quella di Perceval che vuole ritrovare il Sacro Graal, che è segno dell’ultima cena, dell’eucarestia e, quindi, di Cristo.

La stessa queste inconcludente troviamo nel  palazzo incantato (canto XII) dove il mago Atlante ha per la seconda volta rinchiuso Ruggero per proteggerlo dal mondo e dalla morte che gli è stata profetata nel momento in cui sposasse Bradamante.  Lì, nel palazzo, è rappresentato il peccato di idolatria: un bene terreno assolutizzato dall’uomo, ricercato come possibilità di risposta alla propria sete di felicità. Del mancato raggiungimento dell’oggetto del proprio desiderio, dell’insuccesso nell’ottenimento della felicità, però, ciascuno accusa gli altri, senza rendersi conto della vanità dell’idolo.

Il grande paladino Orlando, che nella tradizione combatteva per l’ideale cristiano e per il suo signore, ora impazzisce per amore quando scopre che la donna che lui ama si è sposata con Medoro. Sarà Astolfo sull’Ippogrifo a recuperare il senno di Orlando sulla Luna.

Il giudizio sull’uomo di Ariosto è chiaro. L’autore non intravede soluzioni, prospettive o speranze di cambiamento. Tramontata è la certezza di un bene più grande per cui valga davvero la pena agire, di un destino positivo per l’uomo e, nel contempo, i beni terreni appaiono come vani. Questo è l’inizio della Modernità in cui dubbio, insicurezza nella conoscenza, incertezza sui rapporti umani, eliminazione di Dio dall’orizzonte della storia e dell’azione umana diventano specchio di un cambiamento ormai avvenuto.

La vicinanza ad Ariosto nel modo di concepire la fantasia creatrice porta Calvino a scrivere una rivisitazione dell’Orlando furioso, lunghissimo poema di oltre quarantamila versi. Nasce così L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino (1970) in cui Calvino affianca all’ironia di Ariosto anche la sua personale e introduce momenti di riflessione filosofica. Una decina d’anni prima, nel 1959, Calvino pubblica Il cavaliere inesistente, romanzo ambientato come il Furioso all’epoca di Carlo Magno e che completa la trilogia de I nostri antenati. In una nota del 1960 Calvino esplicita le ragioni per cui accorpa Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente in una trilogia:

Raccolgo in questo volume tre storie che ho scritto nel decennio ’50-’60 e che hanno in comune il fatto di essere inverosimili e di svolgersi in epoche lontane e in paesi immaginari. Date queste caratteristiche comuni e nonostante altre caratteristiche non omogenee, si pensa che costituiscano, come suol dirsi, un «ciclo», anzi un «ciclo compiuto» (cioè finito, in quanto non ho intenzione di scriverne altre). [...] Ho voluto farne una trilogia d’esperienze sul come realizzarsi esseri umani: nel Cavaliere inesistente la conquista dell’essere, nel Visconte dimezzato l’aspirazione a una completezza al di là delle mutilazioni imposte dalla società, nel Barone rampante una via verso una completezza non individualistica da raggiungere attraverso la fedeltà a un’autodeterminazione individuale: tre gradi d’approccio della libertà. […] Vorrei che potessero essere guardate come un albero genealogico degli antenati dell’uomo contemporaneo, in cui ogni volto cela qualche tratto delle persone che ci sono intorno, di voi, di me stesso.

La trilogia parla quindi non solo degli uomini che ci hanno preceduto, ma anche dei contemporanei e di ciascuno di noi. In particolare, spiega ancora Calvino nella nota, il cavaliere inesistente (Agilulfo) è l’uomo artificiale che, essendo tutt’uno coi prodotti e con le situazioni, è inesistente perché non fa più attrito con nulla, non ha più rapporto (lotta, e attraverso la lotta armonia) con ciò che (natura o storia) gli sta intorno, ma solo “astrattamente” funziona.

Scrive Claudio Milanini:

Nel Cavaliere si combatte una guerra senza senso, priva di un inizio e di una fine […]. Su questo sfondo, la vita collettiva viene a coincidere con una sorta di caos programmato, con gesti rituali e cerimonie utili soltanto ad alimentare illusioni di carta, mentre la violenza l’arroganza il fanatismo regnano come veri padroni.

Vi sono personaggi, per lo più i giovani,  che avvertono l’assurdità del contesto, ma sono privi di riferimenti, di maestri, di criteri guida. Nella prossima puntata vedremo la storia de Il cavaliere inesistente.


 

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