La paga del jihad non vale una guerra. Perciò sono guai
Diaria di ottanta dollari, turni massacranti di sedici ore al giorno con un solo week end libero al mese. È la paga del combattente islamico, la dura vita di guerra così come ce la rivela un’inchiesta di Repubblica. Scatti di carriera, licenze matrimoniali e benefit: come in una normale azienda occidentale. C’è da preoccuparsi.
Dio non paga il sabato, figuriamoci se lo fa il Califfo. Per il resto della settimana, i combattenti a suo servizio sono trattati peggio che i bambini che cuciono scarpe e palloni per la Nike. Ce lo rivela Repubblica, ed è davvero uno shock apprendere che anche i tagliagola di al Baghdadi fanno fatica ad arrivare alla quarta settimana del mese. Ci avevano raccontato ingaggi da nababbi per kamikaze e jihadisti, le sexy vergini che aspettano voluttuose i martiri in paradiso, pensione e vitalizi garantiti alle vedove e ai figli, benefit e privilegi fino alla quarta generazione. Tutte balle.Perché a leggere l’inchiesta di Repubblica, la paga del soldato dell’Is è roba da stagista metalmeccanico, archivista del catasto a fine carriera, senza neppure l’indennità di trasferta per chi viene dall’estero. Unico diversivo: qualche sniffata di cocaina tra uno sgozzamento e l’altro, ma solo per chi se la merita.
“Soldi, droga e matrimonio. Ecco la paga del soldato Is” titola il quotidiano un pezzo che potrebbe stare benissimo nelle pagine di economia e lavoro, magari nella sezione “Paghe & Contributi”.Tanto è minuzioso e dettagliato nel dar conto delle voci che compaiono nel cedolino mensile dello jihadista assunto, par di capire, come co.co.pro a tempo determinato e a scadenza semestrale. Il bravo cronista (e lo è davvero bravo) descrive la cosa come se fosse la più normale al mondo: un mestiere come un altro, quello del tagliagola, con i suoi rischi (tanti) e benefici (pochi). Con una pignoleria da ragioniere, senza brividi né stupore nell’elencare la quotidiana amministrazione della macelleria islamica, la partita doppia delle entrate e delle uscite dell’azienda jihad. “Gerarchie, carriere e stipendi” dell’esercito del Califfo e pare di essere a colloquio con un addetto al Caf che ti consiglia su come compilare la dichiarazione dei redditi. Perché, dice Repubblica, «l’Is non è soltanto quello che vediamo: l’orrore e la rappresentazione mediatica dei prigionieri decapitati, le gabbie infuocate, i nemici portati in fila su una spiaggia e sgozzati. C’è anche una “normalità” nascosta, interna».
E allora vediamola questa “normalità interna”, da travet dell’orrore che calcola premi e punizioni, avanzamenti di grado e scatti di anzianità. Lo stipendio non è quello immaginato dai media: la diaria di guerra della jihad, informa Repubblica, corrisponde tra gli 80 e i 100 dollari, meno della metà di quella di un esercito “normale”: israeliano, americano, o francese. La carriera è scandita dai punteggi, in base a cinque criteri di valutazione: ruolo, pegno di fedeltà, anzianità, rendimento in battaglia e ferimenti subìti, «con eventuale inabilità bellica», precisa Repubblica, «che però deve essere certificata da ospedali o centri medici del Califfato». Notazione piuttosto comica che rivela che pure tra i sanguinari guerriglieri ci nascondano lavativi propensi a marcare visita. Comunque, il punteggio massimo per ogni criterio è di 6 punti e il guerrigliero lo ottiene combattendo per un periodo di almeno sei mesi.
I foreign fighter che prendono in sposa una donna del posto raddoppiano i punti (6+6), il ferimento in battaglia ne vale 3, così come se il “soldato” ha meno di 20 anni (un incentivo per i più giovani). I combattenti sposati hanno diritto a una licenza matrimoniale di tre, quattro giorni «rilasciata da un ufficio permessi con tanto di timbro dell’Is: un bollino nero con cerchio bianco che è il sigillo del profeta e la scritta della shahada, la professione di fede dell’Islam». Per il congedo vero e proprio occorre avere trascorso almeno un mese sul campo. I punti possono crescere in relazione alla partecipazione ad azioni più importanti, come l’eliminazione di un leader avversario o attentati di diverso tipo: un’autobomba al mercato o una strage riuscita bene. I turni di lavoro sono massacranti: sedici ore al giorno, sette giorni su sette. A chi combatte, rivela Repubblica, vengono fornite droghe: anfetamine e metanfetamine e cocaina. Ai più “bravi” vengono regalati telefoni cellulari con scheda prepagata e pasticche di viagra: «Il viagra serve per gli stupri… lo prevede il decalogo dell’orrore: con dei distinguo. Le più attraenti vengono fatte schiave e poi vendute. Le altre stuprate e uccise».
Questo è quanto e, diciamo la verità, non è quello che ci si aspettava. Cento dollari al giorno per fare la guerra a orario continuato, turni massacranti da miniera boliviana, un week end al mese (ammesso che uno ci arrivi) non sono certo all’altezza dei meravigliosi ingaggi rifilati dai media nei loro reportage sui guerriglieri maomettani. E poi, questa storia dei “punti paradiso” per i fighter del Califfo è davvero difficile da credere. Va bene la banalità del male, ma qui siamo alla tignosità senza eguali, degna del peggiore degli schiavisti.
Scherziamo, eppure la faccenda è drammaticamente seria. Con un esercito di mercenari senza causa, saremmo tutti più tranquilli: basterebbe loro offrire di più per strapparli al nemico. Ma per un giovane che è disposto a morire solo per 80 dollari al giorno, beh le cose diventano tremendamente più complicate. E dovremo chiederci, una volta per tutte, chi glielo fa fare. Il loro paradiso non può attendere, ma il nostro? Urge risposta tanto per cominciare a capire da che parte iniziare e qual è il premio che siamo in grado di offrire ai nostri ragazzi. La paga del Califfo contro la paghetta del sabato sera: chi vincerà?