La metamorfosi social dei grandi quotidiani
Gli introiti pubblicitari crollano in tutti i settori. Tutti i media stanno morendo? No, si stanno semplicemente trasformando. I social network permettono ad ogni utente di diventare lui stesso produttore ed editore. Le novità che Facebook, Twitter e tutti gli altri lanceranno un nuovo modo di fare giornalismo.
Dire che il giornalismo sta profondamente cambiando appare riduttivo leggendo i giornali delle ultime settimane. La svolta epocale che si sta realizzando riguarda il matrimonio, ormai ufficiale, tra l’informazione tradizionale e i cosiddetti over the top, come Google, Facebook e altri, che fungono da aggregatori e da piattaforme trasmissive di contenuti prodotti dagli operatori tradizionali.
Negli ultimi anni si è assistito a un vero e proprio saccheggio in Rete da parte di suddetti colossi, ai danni della filiera consolidata di produzione editoriale, che si è sensibilmente impoverita. I dati Nielsen riguardanti la pubblicità sui media tradizionali, da questo punto di vista sono alquanto deprimenti: a febbraio il totale degli investimenti pubblicitari è calato del 5,2% sul mese precedente; i quotidiani hanno perso l’8,9%, i periodici il 6,2%, la tv il 4,9%. Questo significa che cresce l’advertising sul web? Neppure quello, che anzi perde il 5,3%. In crescita solo radio e affissioni. Che cosa sta dunque succedendo nell’ambito di produzione e diffusione delle news? Si è disintegrato un vecchio modello di business e stenta a decollarne uno nuovo, che sia in grado di remunerare tutti i fattori produttivi. E tra le ragioni di questo dissolvimento di certezze, che solo dieci o quindici anni fa sembravano inattaccabili, si segnala l’avvento di soggetti che utilizzano infrastrutture realizzate da altri e contenuti prodotti da altri per sviluppare il proprio business.
L’industria editoriale tradizionale non esiste più, perché ciascun utente diventa produttore di informazioni e perfino editore di se stesso, attraverso piattaforme di social network che consentono la condivisione di contenuti di ogni tipo, anche audiovideo. E’ l’apoteosi della disintermediazione.
Si affermano quindi nuovi modelli per produrre fatturato, dai paywall (abbonamenti) alla native advertising, cioè lo sviluppo di contenuti di qualità, a cura della redazione, finanziati dall’inserzionista pubblicitario. Non si tratta dei vecchi publi-redazionali, partoriti nelle aree comunicazione-marketing-pubblicità delle imprese, ma di veri contenuti informativi attinenti all’ambito produttivo e merceologico dell’inserzionista.
In un quadro così aperto e in divenire, atteggiamenti difensivistici da parte degli operatori tradizionali risulterebbero inesorabilmente perdenti. Il mondo editoriale deve cogliere al volo quest’opportunità di innovazione e, pur difendendo legittime pretese di remunerazione del proprio lavoro, deve puntare all’integrazione con i colossi della Rete.
Questi ultimi si stanno decisamente dando da fare in tale direzione. Basti pensare a quanto appena annunciato da Facebook, che ha creato Instant Articles, destinata a diventare la più grande edicola al mondo, con oltre un miliardo e mezzo di potenziali lettori. Di che cosa si tratta nello specifico? Instant Articles permetterà alle testate giornalistiche di caricare le notizie complete di foto, video e altri contenuti interattivi direttamente su quel social network, superando in questo modo il sistema attuale del link che rimanda al sito sorgente. Dunque, un gioco a somma positiva: le testate forniscono i contenuti e in cambio ricevono da facebook una cospicua porzione di introiti pubblicitari. Questa novità epocale sarà fruibile in tutto il mondo, inizialmente attraverso l’iPhone, ma presto o tardi anche su altri dispositivi. Il social network di Mark Zuckerberg ha stretto accordi di questo tipo con alcuni dei più importanti gruppi editoriali mondiali, tra cui il New York Times, The Guardian, Spiegel e Bild, ma c’è da scommettere che nei prossimi mesi ne siglerà altri in tutto il mondo.
L’aspetto più vantaggioso per i giornali tradizionali sarà quello di poter continuare da un lato a vendere direttamente pubblicità incorporandola nei loro articoli e, dall’altro, di poter delegare a Facebook la vendita di inserzioni, concordando una suddivisione dei ricavi. Inoltre, gli editori manterranno ovviamente il controllo dei contenuti pubblicati.
L’alleanza non è solo contenutistica ma anche tecnologica, perché Instant Articles promette di rendere l’esperienza di lettura fino a dieci volte più veloce dello standard degli articoli su “mobile”.
Altri segnali di metamorfosi dell’ecosistema informativo si erano già registrati a inizio anno. A gennaio Snapchat – il servizio di messaggistica istantanea per smartphone e tablet basato sulla facoltà degli utenti di inviare ai propri contatti messaggi di testo, foto e video visualizzabili solo per un breve periodo di tempo – ha lanciato “Discover”, una sezione della propria app di cui fa parte una selezione di media companies. Il network lascia agli editori il 100% del fatturato pubblicitario se venduto da questi e il 40% se è Snapchat stessa a piazzare l’inserzione. Twitter starebbe per acquistare direttamente una media company, mentre Google nelle settimane scorse ha annunciato una partnership con un gruppo di editori (tra cui La Stampa, El Pais, Frankfurter Allgemeine Zeitung e Financial Times).
Siamo dunque entrati in un’altra fase della rivoluzione digitale e del rapporto tra giornalismo e tecnologie. Non è detto che questo passaggio non possa favorire una rivalutazione del valore aggiunto che un giornalismo deontologicamente ispirato può dare al mondo dell’informazione. Chi è giornalista, a differenza di chi non lo è, s’impegna a rispettare alcuni principi di correttezza del diritto di cronaca che rendono maggiormente credibile la sua professione. Questo crescente interesse degli over the top nei confronti del giornalismo professionale va registrato con attenzione e probabilmente può rappresentare anche per la deontologia giornalistica un’occasione di rilancio da non sprecare. Innovazione e qualità dell’informazione possono marciare unite, nell’interesse di tutti.