La malattia del clericalismo
Il Papa nel novembre del 2013 ha avuto un incontro con i superiori generali degli istituti maschili. Uno dei temi toccati è quello del clericalismo, che ingabbia nelle regole, ma non è vocazione. Il problema riguarda anche i laici.
Il Papa nel novembre del 2013 ha avuto un incontro con i superiori generali degli istituti maschili. Venerdì scorso Civiltà Cattolica ha pubblicato ampi stralci della chiacchierata del Pontefice – così come sono stati raccolti dal direttore padre Antonio Spadaro - chiacchierata che ha toccato molti temi legati alla vita religiosa.
Tra questi si è parlato anche di clericalismo. Il Santo Padre, accennando all’argomento della formazione dei giovani nei seminari, sottolinea il fatto che i tempi sono cambiati e la realtà che vivono quei novizi che da poco hanno smesso gli abiti laici è molto più complessa di quella che hanno sperimentato i loro superiori un po’ di decenni or sono: “La cultura odierna è molto più ricca e conflittuale di quella vissuta da noi, al nostro tempo, anni fa. La nostra cultura era più semplice e ordinata”. Questa complessità e frammentazione del reale è entrata a fondo nella psiche e nel cuore dei giovani aspiranti religiosi ed ovviamente se la portano dentro il seminario come lascito magari non gradito del mondo che si sono appena lasciati alle spalle.
Quale è dunque la strada migliore per formare i giovani in seminario? Papa Francesco, ormai lo sappiamo, più che la lettera scritta preferisce la parola detta, anzi ascoltata: “Serve tanto dialogo, tanto confronto”, posto naturalmente che il termine di confronto sia la regola dell’ordine o della congregazione.
Poi il Papa indica uno degli aspetti deteriori della formazione religiosa: il volontarismo fatto di precetti da osservare costi quel che costi. L’obbedienza cieca della coscienza che però ha gli occhi sani di suo è un bene, ma diventa un male quando è l'unica condizione di vita del religioso. Perché alla lunga la sola volontà snerva l'uomo, lo immiserisce, lo frustra, lo svuota dal di dentro. La volontà infatti può essere il punto di partenza del cammino di perfezione del religioso, una volontà che aderisce al bene sforzandosi di superare i moti contrari dell’intelletto e della carne (generosità). Ma poi la volontà si deve evolvere in virtù, cioè in una condizione abituale a compiere il bene, condizione propria di chi ama. A quel punto non si metterà più al centro la regola, ma l'oggetto indicato dalla regola: il superiore, l'apostolato, le persone che si incontrano, lo studio, etc. In tal modo il religioso, potremmo dire, diventerà serenamente "legge a se stesso". Ciò non significa ovviamente che la forza di volontà sarà messa in soffitta, ma il motore principale della vita religiosa non sarà più il supino e formalistico adeguamento alle norme dell’ordine – cosa buona per chi muove i primi passi - bensì la virtù che ha colto la ratio della norma e l’ha ricreata personalmente, l’ha fatta propria pur rispettandola.
Questa pedagogia evita il legalismo perché tratta il giovane come persona libera. Altrimenti il giovane scoppia perché si sentirà in gabbia, in un vestito religioso non suo pur avendo la vocazione. “Non si risolvono i problemi semplicemente proibendo di fare questo o quello” ammonisce il Papa ed aggiunge: “Per evitare i problemi, in alcune case di formazione, i giovani stringono i denti, cercano di non commettere errori evidenti, di stare alle regole facendo molti sorrisi, in attesa che un giorno gli si dica ‘Bene, hai finito la formazione’. Questa è ipocrisia frutto di clericalismo, che è uno dei mali più terribili. […] Bisogna sconfiggere questa tendenza al clericalismo anche nelle case di formazione e nei seminari”. Poi Padre Spadaro aggiunge: “A Rio [nell’incontro di questa estate con i vescovi del Consiglio Episcopale Latinoamericano] infatti, il Papa aveva identificato nel clericalismo una della cause della ‘mancanza di maturità e di libertà’ del popolo di Dio”.
Il gioco d’equilibrio dei formatori è dunque quello di non stravolgere le regole ad uso e consumo dei seminaristi, bensì di far vivere la regola secondo il percorso vocazionale personalissimo che Dio ha scelto per ciascuno: declinare nel singolo lo spirito e la natura immutata del carisma. Il religioso deve sentirsi più se stesso nel seguire la regola, trovare in essa la propria realizzazione e non mortificato. Altrimenti non è “vocazione” e si scade nell’omologazione che prima o poi tracimerà nella ribellione ai superiori e alle norme delle Costituzioni o peggio si cercherà una valvola di sfogo cercando avventure sessuali, mettendo le mani nelle casse dell’ordine per arricchirsi, tentando di trovare un posto al sole tra teologi o religiosi carismatici al fine di nutrire il proprio ego così represso durante gli anni di formazione.
Ma questo punto toccato dal Papa è solo uno degli aspetti del clericalismo. Tale patologia della vita cristiana interessa sia i religiosi-sacerdoti che i laici ed è uno dei frutti amari di una certa lettura erronea del Concilio Vaticano II che ha confuso le competenze e gli stati di vita dei religiosi/sacerdoti con quelle dei laici. E così da una parte ci ritroviamo sacerdoti che mimano i laici, assumendo atteggiamenti e mentalità che non essendo i loro risultano falsi e spesso ridicoli: il modo di vestire che ha preferito grigi golfini a V alla nera talare, le attività nelle parrocchie mai delegate ai laici, i superiori degli ordini che, sempre non delegando, si occupano in prima persona di costruire o acquistare nuovi immobili per la congregazione, gestire network, sedere nei consigli di amministrazioni di enti laicissimi etc: “gestori” e “amministratori” infatti li chiama il Papa. È un modo di clericalizzare il mondo non di evangelizzarlo. Una Chiesa non missionaria dunque, ma torbidamente liquida che si infiltra dovunque ma non nei modi evangelizzatori propri della Sposa di Cristo. Una Chiesa invece che adotta sempre e dovunque criteri di matrice religiosa in materie anche secolari, peccando così di incompetenza. Il mondo non è un monastero.
E dall'altra abbiamo laici "impegnati" che si clericalizzano: quando parlano e scrivono sembrano sacerdoti mancati, confezionano piccole omelie piene di moralismi e sermoncini ispirati e colti, guidano gruppi di pellegrini nei santuari di mezzo mondo atteggiandosi a provetti sacerdoti sicuri in coscienza di valere ben più di costoro perché il sacramento dell’ordine – così si dicono e raccontano a terzi - è come se lo avessero ricevuto sul campo, anzi sulla spianata di Lourdes. E dunque per paradosso il laico si sforzerà sempre più di assomigliare al religioso e questi al laico. I due in sostanza si troveranno a metà strada e l’uno si specchierà nell’altro. Da qui la confusione dei ruoli e l’imbarazzo del cattolico medio: quel tizio che siede in chiesa con tanto di maglioncino bigio sarà un laico che sta attenendo il parroco per confessarsi o il parroco in attesa che qualcuno si accosti a lui per la confessione?
Ma c'è anche un lato elitario del clericalismo. Se dal punto di vista teologico il sacerdote e soprattutto il religioso - come indicato dal Papa - prefigura la nostra condizione ultraterrena ed è alter Christus e dunque vive una vocazione che di suo ha un grado maggiore di perfezione rispetto al laico, questo non significa che ogni cosa che lui fa è sicuramente migliore di quella del laico. Il clericalismo, in questa prospettiva, è accentratore perchè il clericalista è convinto che se una certa cosa è decisa da lui è certo che tale intuizione è d'ispirazione divina. E dunque usa del laico come asino da soma, perché poverino non può far altro, lo cannibalizza per i suoi utili, ne abusa perché non si accosta a lui nell'apostolato per quello che è - il famoso ascolto indicato dal Papa - ma per quello che fa o peggio per quello che ha e dunque per l'utile che il clericalista ne può trarre.
Il clericalista tratta il laico come se fosse – ne abbiamo già accennato - un piccolo sacerdote in erba, ma magari ha davanti un avvocato affermato, un medico assai stimato, un giornalista di lungo corso, un imprenditore con un folto e sano pelo sullo stomaco, un docente universitario con un curriculum che tocca il soffitto e una madre di cinque figli che ne ha viste di cotte e di crude in vita sua peggio che un missionario in Congo. Il clericalista invece guarda tutti costoro con il sorrisino di superiorità e di sufficienza di chi la sa lunga, più lunga di tutti, perché crede di aver ricevuto la formazione migliore al mondo, omnicomprensiva in merito a scibile umano. E pensa altresì di vivere nel migliore dei mondi possibili e impone con arroganza e - per dirla con Francesco - con metodi polizieschi che tutti adottino la sua prospettiva la quale invece, calata nel mondo, è assolutamente ingenua, perché non adeguata a quella complessità del reale a cui fa riferimento il Papa, complessità di cui in genere è più perito il laico che il religioso. Insomma nessuno vuole insegnar a dire messa ai sacerdoti, ma, in spirito di reciprocità, così sia anche per i laici.