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LA MORTE DI TOTO' RIINA

La mafia e quella scomunica che non esiste

Dal punto di vista canonico non è vero che i mafiosi sono scomunicati. Soltanto i sacerdoti che hanno potuto incontrarlo possono dire se prima della morte ha avuto un pentimento o meno. E da questo dipende anche la possibilità di funerali religiosi.

Cronaca 18_11_2017
Totò Riina

La morte in carcere del boss mafioso Totò Riina, che stava scontando 26 condanne all'ergastolo, ha immediatamente riaperto vecchie ferite. Ma ha anche provocato la domanda sulla modalità del suo funerale. Immediatamente portavoce e segretario della Conferenza episcopale italiana hanno dichiarato l'impossibilità del funerale pubblico ma escluso anche quello religioso, ricordando la scomunica lanciata già nel 2014 da papa Francesco contro i mafiosi. In realtà le cose sono più complesse e abbiamo chiesto a padre Giorgio Maria Carbone di spiegare che cosa realmente la Chiesa prescrive in situazioni come questa.

Il mafioso non è scomunicato.
Papa Francesco nella visita apostolica in Calabria del 21 giugno 2014 disse con veemenza che i mafiosi erano scomunicati. Ma dopo non seguì nessun cambiamento delle norme canoniche in materia di scomunica. Quindi, nulla di fatto e nulla di diritto.

La scomunica latae sententiae, cioè quella pena con la quale un fedele è escluso dalla comunione con la Chiesa ed è privato dei beni spirituali, pena latae sententiae, cioè automatica, nella quale il fedele incorre per il semplice fatto di aver commesso un delitto grave, è prevista – ad esempio – per l’apostata, l’eretico e lo scismatico (canone 1364), per «chi usa violenza fisica contro il Romano Pontefice» (canone 1370), per «chi procura l’aborto ottenendo l’effetto» (canone 1398). Ma «chi commette omicidio, rapisce o detiene con la violenza o la frode una persona, o la mutila o la ferisce» è punito con pene espiatorie che non sono la scomunica (canoni 1336 e 1397), come ad esempio il divieto di dimorare in un determinato luogo, la privazione di uffici, diritti o facoltà.

Inoltre, la scomunica, come le altre pene, ha uno scopo medicinale, cioè mira a ottenere la conversione del colpevole. E infine per incorrere nella scomunica il colpevole deve aver compiuto il delitto mentre era in vigore una legge che irrogava la scomunica. Mentre se ha commesso il delitto, prima dell’entrata in vigore della legge di scomunica, non incorre in essa. Questi sono i principi generali che regolano la scomunica.

Nella fattispecie concreta che riguarda Totò Riina possiamo dire che, per quanto sia colpevole di abominevoli delitti, non è canonicamente scomunicato. Ma forse chi parla di scomunica usa un linguaggio molto improprio e per nulla canonico. Possiamo supporre che voglia riferirsi solo alla privazione delle esequie ecclesiastiche?

A questo proposito il canone 1184 prevede questo: «Se prima della morte non diedero alcun segno di pentimento, devono essere privati delle esequie ecclesiastiche:
1) quelli che sono notoriamente apostati, eretici, scismatici;
2) coloro che scelsero la cremazione del proprio corpo per ragioni contrarie alla fede cristiana;
3) gli altri peccatori manifesti, ai quali non è possibile concedere le esequie senza pubblico scandalo dei fedeli.
Presentandosi qualche dubbio, si consulti l’Ordinario del luogo, al cui giudizio bisogna stare».

Certamente concordiamo sul fatto che Totò Riina è oggettivamente un peccatore manifesto. Ma dobbiamo altrettanto concordare sulla nostra comune ignoranza: non sappiamo se prima della morte Riina ha dato un segno di pentimento. Abbiamo una certezza circa l’oggetto morale e una ignoranza circa le circostanze soggettive.
Chi potrebbe toglierci da questa ignoranza? Il cappellano del carcere di Parma o quello dell’ospedale di Parma, oppure qualcuno che ha raccolto le confidenze del boss di Corleone.

È doveroso poi ricordare alcuni insegnamenti di Gesù che illuminano la nostra coscienza. In Matteo 21,31 è detto: Pubblicani e prostitute vi precederanno nel regno dei cieli; in Luca 6,37: Non giudicate e non sarete giudicati: il che non significa che non devo emettere giudizi – la mia intelligenza è fatta per elaborare giudizi – significa piuttosto che non devo giudicare la moralità dell’altro, né dire che è buono o cattivo. Posso, anzi talvolta devo giudicare i fatti, l’oggettività di quanto mi si para davanti, ma non dovrò mai giudicare la persona, per il semplice fatto che sono incompetente visto che non conosco quanto accade nel suo intimo, nella sua intelligenza e nella sua volontà. E poi, non ti ricordi il caso di un peccatore pubblico, un malfattore notorio, condannato alla stessa pena di Gesù? Che dice: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno». E Gesù gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Luca 23,43).

Mio nonno, Luigi, che non aveva simpatie né mafiose, né camorristiche, quando moriva qualcuno era solito dire in napoletano: "S’è imparavisato", che tradotto suona: è entrato in paradiso.
Davanti a slogan avventati e alla rincorsa del politicamente conveniente, questa è la speranza che ci deriva dalla fede in Gesù Cristo.