La lotta all'evasione non è la panacea di tutti i mali
Poco importeranno gli esiti dello scontro fratricida fra Governo e Agenzia delle Entrate. Il problema di fondo rimarrà invariato: una pressione fiscale punitiva, che supera il 50% del Pil italiano, non può più essere sostenuta. E neppure la lotta all'evasione può essere più proposta come metodo per risanare i conti.
Fatto a mio avviso molto significativo, lo scoppio di un’improvvisa battaglia attorno all’Agenzia delle Entrate ha in questi giorni fatto seguito alla presentazione di un bilancio preventivo dello Stato (ufficialmente noto col nomignolo di “patto di stabilità”) i cui tratti caratteristici sono l’aumento del deficit, l’assenza di qualsiasi consistente razionalizzazione della spesa pubblica e la scarsità degli investimenti a sostegno dei settori dell’economia più capaci di generare sviluppo.
In tale oscuro orizzonte, in cui l’unica cosa che risplende è la grande capacità di tele-vendere del premier Matteo Renzi, ecco riapparire il mito della lotta all’evasione fiscale come panacea di ogni nostro problema. In realtà, anche se questa è di certo cosa da non sottovalutare, il vero problema di fondo della finanza pubblica in Italia non è l’evasione bensì il peso insopportabile della pressione fiscale. Quando, come da noi accade, fra imposte visibili e imposte occulte si supera il 50% del Prodotto interno lordo, cominciano a divenire troppo spesso impossibili per l’economia produttiva l’investimento nella ricerca e nella formazione nonché operazioni di ampio respiro sui mercati internazionali. La si condanna cioè, nel contesto del mondo globalizzato in cui viviamo, a diventare non solo fragile ma anche subalterna, vulnerabile.
Fermo restando che l’evasione fiscale è un comportamento contra legem che lo Stato ha il diritto/dovere di perseguire, resta altrettanto vero che al dovere dei contribuenti di pagare correttamente le imposte corrisponde il dovere dello Stato di non depredarli. Nel caso del nostro Paese è invece evidente che lo Stato li depreda. Come è noto, nel nostro ordinamento sono stati recentemente introdotti alcuni casi legittimi di “morosità incolpevole”. Senza entrare qui nel merito di questa sorprendente innovazione giuridica, diciamo che alla stessa stregua si potrebbero pure immaginare dei casi legittimi di “evasione fiscale incolpevole”; e non solo di piccoli operatori costretti a ciò per non chiudere, ma anche di grandi operatori costretti a ciò per non venire divorati da pesci troppo più grandi di loro e ben più in grado di loro di nuotare nel difficile mare della globalizzazione.
In tale quadro non ci commuove troppo la vicenda che riempie in questi giorni le prime pagine dei giornali e che in sostanza è un riflesso della lotta in corso dentro l’amministrazione dello Stato tra quel che resta dell’antico ministero delle Finanze (insieme al Tesoro e al Bilancio uno dei tre apparati di cui l’attuale ministero dell’Economia è l’incerto frutto) e la più recente Agenzia delle Entrate, il cui direttore, la toscana Rossella Orlandi, è tra l’altro persona di stretta fiducia di Matteo Renzi. Non ci commuove troppo poiché tutto ciò non incide sulla “filosofia” cui si ispira la politica fiscale del nostro Paese che non è destinata a cambiare quale che sia l’esito finale dello scontro in corso. Senza dubbio l’Agenzia è qualcosa di più moderno e di meno tendenzialmente ostile all’economia produttiva dell’apparato superstite del vecchio ministero delle Finanze. Quindi viene da tifare per la prima e non per il secondo. Nella sostanza però l’Agenzia è al servizio della medesima pressione fiscale sproporzionata, e punitiva di chi produce, che continua a caratterizzare lo Stato italiano. Quindi nella misura in cui è più efficiente finisce paradossalmente, e non per colpa sua, di essere più dannosa.
Con tanti auguri per una ragionevole soluzione dello scontro fratricida in corso, sarebbe più urgente mettere mano a uno studio organico, approfondito, e il meno possibile condizionato da interessi politici di breve periodo della spesa pubblica italiana nel suo complesso. E su tale base procedere a una sua radicale riforma basata su criteri del tutto diversi da quelli finora vigenti. Ovvero – diciamolo ancora una volta – sull’autonomia responsabile dei territori, sul rapporto diretto e trasparente tra decisioni sul prelievo fiscale e decisioni sulla spesa, sulla concorrenza fiscale virtuosa, sulla semplificazione delle procedure, sul principio della fiducia e quindi sulla riduzione dei controlli accompagnata però da un’efficace sanzione dei comportamenti illegali. Con il loro ordinario funzionamento un sistema fiscale mal fatto, una legge mal fatta causano più danni di tutti i ladri e di tutti gli evasori. Per la lotta al crimine, compresa l’evasione fiscale, in Italia abbiamo la bellezza di cinque polizie statali armate, fra cui l’unicum mondiale di una polizia fiscale armata: se tutte e cinque facessero il loro lavoro concordemente e bene non ci sarebbe scampo per i malfattori, evasori compresi. Non per combattere il crimine (per questo dovrebbero bastare le cinque polizie) ma per giudicare con equità e a termini di legge chiunque sia sottoposto al suo giudizio abbiamo una fiorente magistratura. Al governo, al parlamento, al ceto politico compete di rendere l’ordinario funzionamento dell’amministrazione più efficiente e quindi meno costoso. Se ognuno facesse bene la propria parte invece di fare male quella degli altri molto probabilmente la situazione comincerebbe a migliorare in fretta.