La lezione del bambino inglese che si rifiuta di morire
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A NR, 4 anni, erano stati tolti i sostegni vitali ad aprile per decisione di medici e giudici. Ma ha continuato a vivere e anzi le sue condizioni sono migliorate. Il giudice revoca la sentenza ma non capisce la morale della storia, ovvero cosa significano amore e "miglior interesse".
«È un caso molto insolito e solleva alcune domande scomode che meritano una risposta aperta e obiettiva». Queste parole sono del giudice britannico Nigel David Poole e il caso cui si riferisce è quello di NR, un bambino disabile di 4 anni a cui lo scorso aprile lo stesso giudice aveva deciso di far togliere i sostegni vitali ma che è sopravvissuto e sta addirittura migliorando.
Si tratta di un caso che riporta immediatamente di attualità tutti i casi precedenti – da Charlie Gard a Indi Gregory, passando per Alfie Evans, Archie Battersbee e altri – in cui medici e giudici sono intervenuti contro la volontà delle famiglie per accelerare la morte dei bambini. E si presta ad alcune considerazioni.
NR (il tribunale ha vietato la diffusione del nome) è nato senza occhi e probabilmente sordo, ma nel 2023 è stato colpito da una infezione cerebrale che ha provocato due infarti: da quel momento ha vissuto solo grazie a un ventilatore polmonare, almeno fino ad aprile. Il copione era già scritto: i medici del King’s College Hospital decidono di interrompere l’ausilio dei sostegni vitali, i genitori – cattolici e che già avevano rifiutato l’aborto quando un’ecografia aveva rivelato la grave disabilità – si oppongono; e si finisce in tribunale. E qui il giudice Poole, dopo aver visitato il bambino, decide che è nel suo miglior interesse morire, perché «le difficoltà che deve affrontare sono di gran lunga maggiori dei benefici». I genitori avevano tentato anche la carta del ricovero in Italia, all’ospedale Bambin Gesù di Roma: invano.
Senonché, a sorpresa, NR si rifiuta di morire malgrado non sia più attaccato al ventilatore polmonare; di più, le sue condizioni lentamente migliorano: niente più catetere, viene nutrito con un sondino, respira normalmente. Così lo stesso giudice Poole, su istanza dei genitori, torna a visitare il bambino, prende atto della situazione e il 23 settembre ritira la sua sentenza precedente, intimando ai medici di prestare tutte le cure necessarie, e riconoscendo che questo caso dimostra che «la medicina è la scienza dell’incertezza e l’arte della probabilità». D’altro canto Poole, che in passato aveva già fatto staccare i sostegni vitali in altri casi analoghi, ha difeso la sua sentenza di aprile affermando che era giustificata date le circostanze in cui è stata presa.
Si capisce allora che le possibili risposte alle «domande scomode» poste dal caso NR probabilmente si limiteranno in futuro a una maggiore prudenza nel decidere per il distacco dei sostegni vitali e magari a maggiori esami clinici per stabilire le reali possibilità di ripresa.
Il fatto è che il giudice Poole, giustificando la sentenza di aprile, conferma due criteri fondamentali profondamente erronei.
Il primo riguarda il significato dell’amore dei genitori per un figlio (ma vale per l’amore in generale). Nella sentenza di aprile, il giudice riconosceva il grande amore dei genitori per NR: «Come genitori di un bambino gravemente disabile sono consapevoli che non potranno offrirgli quella quantità di esperienze che potrebbero dare a un bambino senza le sue disabilità, ma possono dargli un amore incondizionato e la certezza che saranno sempre con lui. (…) NR continua a beneficiare dell’amore incondizionato e del sostegno dei suoi genitori. La loro devozione nei suoi confronti è davvero commovente». Ma sostenendo la decisione dei medici, confermata dalla sua stessa visita, il giudice Poole afferma che l’amore, per quanto edificante, è un ostacolo a giudicare lucidamente cosa sia meglio per la persona amata. Come a dire che l’amore è un ostacolo alla ragione e l’unico modo di giudicare obiettivamente sia l’indifferenza rispetto al soggetto che si giudica. Si tratta di una pretesa assurda: l’indifferenza, l’assenza di un sentimento o di un coinvolgimento in realtà impedisce di conoscere l’altro e quindi di poter giudicare cosa sia bene per lui.
Altrimenti sarebbe come dire, ad esempio, che due persone sposate non sono in grado di capirsi reciprocamente e di riconoscere il bene dell’altro per il solo fatto di essere innamorate o coinvolte affettivamente. Certo che si può dare anche un rapporto affettivo vissuto in modo distorto, ma la soluzione non può essere l’indifferenza, è disumano. Disumano come la sentenza di aprile.
C’è un secondo criterio affermato dal giudice Poole che non può essere condivisibile. Per giudicare quale sia «il miglior interesse» egli infatti usa il metro della “qualità della vita”. Il ripensamento su NR è davanti all’evidenza che le sue condizioni sono migliorate e che quindi il parere dei medici si è rivelato frettoloso e inaccurato. Ma resta dell’idea che davanti alla prospettiva di un progressivo peggioramento delle condizioni sia comunque giusto forzare la morte, proprio perché una vita così non è più degna di essere vissuta.
Questo è però proprio il criterio contro cui hanno combattuto i genitori di NR così come quelli di Alfie, Charlie, Archie e gli altri: non si facevano illusioni sulla guarigione dei propri figli, né contavano su una lunga aspettativa di vita, ma chiedevano che la morte arrivasse naturalmente, che fosse Dio a decidere e non un medico o un giudice. Chiedevano che non venisse spezzato artificialmente e brutalmente quell’amore incondizionato e naturale dei genitori che ha nutrito i loro bambini fino all’ultimo istante. E questo «miglior interesse» è esattamente ciò che il Potere di questo mondo non intende riconoscere.
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Morte cerebrale e dignità, le domande del caso Archie Battersbee
Tra le tante questioni sollevate dalla vicenda del caso Archie Battersbee, il 12enne morto sabato scorso in un ospedale di Londra dopo il distacco del ventilatore voluto dai medici e ordinato dai giudici, merita sottolineare le strumentalizzazioni della morte cerebrale. E l'ambiguità del concetto di dignità umana.