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DAT

La legge va avanti, ma non chiamatelo "fine-vita"

Il bioeticista Adriano Pessina:
«La legge interviene solo in parte a riguardo dei morenti. Dove c'è buona medicina non c'è bisogno di Dat».

Attualità 08_07_2011
Adriano Pessina

Dopo l’approvazione degli articoli 1 e 2 della Legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), avvenuta mercoledì, l’aula della Camera ha approvato il 7 luglio due emendamenti all’articolo 3 – presentati da Paola Binetti (Udc) e Lucio Barani (Pdl) – che prevedono di poter indicare nel testamento biologico solo i trattamenti terapeutici cui si vuole essere sottoposti in caso di perdita di coscienza e non quelli a cui invece non si vuole essere sottoposti. Un altro “paletto” importante che si aggiunge ai primi due articoli che escludono qualsiasi forma di eutanasia e prevedono l’obbligo del consenso informato.

Per avere una prima valutazione su quanto sta avvenendo in Parlamento abbiamo chiesto un parere al professor Adriano Pessina, docente di Filosofia Morale all’Università Cattolica di Milano e noto esperto di bioetica, nonché membro della Pontificia Accademia della Vita.


Professor Pessina, quanto si può essere soddisfatti di questi principi fondamentali approvati dalla Camera?

Penso che sia molto importante ribadire, anche con una legge, il divieto di ogni forma di suicidio assistito e di eutanasia, e di tornare a qualificare l’operato del medico all’interno dei due parametri decisivi del curare e del prendersi cura. Il fatto che una legge che riguarda le dichiarazioni anticipate di trattamento debba aprirsi con queste dichiarazioni, di principio, ma sostanziali, è però indice di un fatto: in modo improprio, finora, si è cercato di utilizzare il riferimento alla volontà pregressa del paziente per aprire le porte a forme di abbandono terapeutico, se non di esplicita eutanasia, come si è visto con il caso Englaro. Per questo motivo, proprio per un uso distorto e ideologico delle dichiarazioni anticipate di trattamento, la legge che le regola deve prestarsi il meno possibile ad interpretazioni che ne violino la lettera e lo spirito. Ma più si entra nel merito di quanto si può o no rifiutare, più facilmente si apre la possibilità del fraintendimento, o si rischiano eccessi ingiustificati. Penso che si debba aspettare la formulazione definitiva per giudicare, anche perché sembra che verranno apportate delle modifiche anche da parte del relatore di maggioranza. Aggiungo che le informazioni sui lavori in corso non sono poi facilmente reperibili.


Non ritiene che il solo fatto di arrivare a discutere una legge che cerca di regolamentare un momento così particolare e importante come è il fine vita sia già una sconfitta culturale?

La questione, a mio avviso, particolarmente delicata, è data dal fatto che questa legge fa riferimento a situazioni tra loro molto differenti. Di solito, si dice che riguarda il fine vita, ma in realtà molti dei suoi articoli non riguardano affatto dei morenti, ma pazienti, come quelli in stato vegetativo, che spesso hanno lunghe aspettative di vita, anche se rarissime possibilità di ripresa di alcune attività coscienziali. A ciò si aggiunga che, in linea di principio, le Dat dovrebbero servire per regolare le situazioni nelle quali il soggetto non può più esprimere la sua volontà, e questo potrebbe essere il caso delle malattie neurodegenerative, che sono diverse dalle situazioni precedenti. A mio avviso, la sconfitta culturale è iniziata nel momento in cui si sono fatte troppe confusioni di situazioni e si è usata l’arma della retorica al posto dell’informazione corretta. Può, una legge, fare finalmente chiarezza? Ce lo auguriamo, ma è certo che non si può assolutamente pensare che basti una legge per creare una adeguata attenzione alle situazioni critiche dell’esperienza della malattia, o delle situazioni di fine vita. Tra l’altro non si sottolinea abbastanza che le Dat non sono obbligatorie, e che nei Paesi in cui sono legalizzate sono poco utilizzate, e che quindi restano aperte tutte le questioni che non vengono, per così dire, coperte dalle Dat.


Dopo l’approvazione dei primi articoli, esponenti dell’opposizione hanno già lanciato una sfida sul modello di quanto accaduto per la legge 40, affermando che ci sarà un “grosso lavoro per i giudici”.

Non è impossibile, anche a motivo delle diverse tematiche presenti in questa legge, che potrebbero prestarsi a diverse interpretazioni. A suo tempo avevo formulato alcune osservazioni di merito, su possibili lacune dell’impianto legislativo, ma non sappiamo quale sarà il prodotto finale dei lavori. Va anche aggiunto che i radicali, che sono trasversali ai vari schieramenti, sono da tempo sostenitori di eutanasia e suicidio assistito e che sono i responsabili di quello stravolgimento del significato delle Dat che ha spinto molti a ritenere necessaria una legge. L’importante è creare un consenso nel Parlamento e soprattutto nel Paese sul significato di questa legge e, a mio avviso, sul fatto che laddove c’è una buona medicina non c’è bisogno di Dat.


Qualcuno critica il progetto di legge perché, seppure con le migliori intenzioni, apre la strada al principio dell’autodeterminazione?

Non dobbiamo avere paura né dell’autodeterminazione, né della libertà di scelta del cittadino: ciò che va messo in discussione è il contenuto delle scelte. Non si tratta di negare la libertà, ma di ribadire che alcune scelte sono moralmente sbagliate e illegali. Se vogliamo promuovere una cultura dell’assistenza non rinunciataria, ma equilibrata, dobbiamo ristabilire un nesso fiduciario tra medico e paziente che abbia solide basi valoriali. Tutta questa enfasi sull’autodeterminazione finora è servita soprattutto per disimpegnarsi nei confronti delle situazioni difficili, secondo lo slogan “lo vuole il paziente”. Del resto costa meno sospendere i trattamenti, valorizzare la rinuncia, valorizzare la libertà del suicidio assistito e dell’eutanasia che costruire itinerari di assistenza integrale e integrata, che preveda nuove forme di aiuto e di supporto non soltanto ai malati ma ai familiari e a chi si prende cura di loro. Dobbiamo essere onesti: l’etica non è gratis. Dobbiamo decidere se a guidare l’assistenza è l’economia o se l’economia e l’assistenza debbano essere guidate da una nuova consapevolezza di quali beni sono da tutelare senza se e senza ma, mostrando che ci sono campi in cui, invece, sarebbe doveroso tagliare costi e prestazioni. La libertà si esercita anche qui, non mettendo tutte le situazioni sullo stesso piano e non facendo gravare sui più deboli i costi di altri sprechi.