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L'ALTRA RESISTENZA/2

La guerra di liberazione dei militari: Jugoslavia ed Esercito del Sud

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In Jugoslavia, dopo l'8 settembre 1943, due divisioni italiane non si arresero e continuarono a combattere una guerra partigiana contro i tedeschi. Intanto in Italia si formava e combatteva l'esercito cobelligerante, o "Esercito del Sud".

Cultura 16_04_2025
Esercito del Sud

Nella prima puntata di questo dossier abbiamo visto la Resistenza dei militari dopo l’8 settembre e come essa sia stata proseguita, senz’armi, dai 600.000 militari che si sono rifiutati di arruolarsi nella repubblica Sociale e hanno preferito morire a decine di migliaia nei lager nazisti.

Ben pochi ricordano che i militari italiani hanno combattuto contro i tedeschi non solo nella resistenza dietro le linee ma anche da partigiani, in Jugoslavia e in Italia col Corpo Italiano di Liberazione.

Quella della Resistenza in Jugoslavia è un capitolo di storia eccezionale per molti versi. Due divisioni che svolgevano compiti di occupazione (l’alpina “Taurinense” e la divisione di fanteria “Venezia”) decisero di non arrendersi ai tedeschi e di conservare le armi e la libertà.  Fu il generale Lorenzo Vivalda, comandante della “Taurinense” a rifiutare la resa in quanto le condizioni imposte erano «assolutamente inaccettabili per chiunque abbia dignità di uomo e di soldato». Stesso atteggiamento fu del generale Giovambattista Oxilia, comandante della “Venezia” e che divenne comandante della nuova divisione partigiana “Garibaldi”. Tra gli ufficiali che si distinsero in questa lotta vi fu il maggiore Carlo Ravnich che, pur essendo monarchico e anticomunista si alleò coi comunisti dell’Esercito di Liberazione jugoslavo dopo aver condotto, per anni, una guerra antipartigiana.  

Le due divisioni sopra nominate contavano in tutto, appena 20mila uomini validi, la metà dei propri effettivi ma le perdite successive abbassarono tale numero a quasi 12mila uomini.

Al termine di diciassette mesi di guerra partigiana, nel febbraio 1945 i superstiti della divisione “Garibaldi” tornarono in Italia. Dei 12mila iniziali ne rimasero 3.800, tutti gli altri morti o dispersi. Tra essi vi era anche il sottotenente degli alpini Pierluigi Leoni e sua moglie, la partigiana montenegrina Rosa Paicovich, incinta di Anna, la prima figlia: questo per dire come la memoria di quei fatti fosse ancora ben viva nella generazione immediatamente successiva alla guerra.

Eppure, come narra lo storico Filippo Masina, il fatto sbalorditivo fu che «la quasi totalità dei combattenti rimpatriati chiese di continuare a combattere, anche se di fatto la loro partecipazione alla guerra di liberazione in patria fu assai limitata per ragioni organizzative. Nel dopoguerra la Garibaldi si trasformò in un reggimento delle forze armate italiane, che fu sciolto solo nel 1976». Le medaglie d’oro individuali conferite per i partigiani italiani nei Balcani e in Grecia furono diciotto.

La storia dell’esercito del Sud è ancora più complessa. Inizialmente fu limitato a un Raggruppamento motorizzato costituito attorno alla divisione “Legnano”. Erano 5mila uomini in tutto, con armi italiane, molto più inefficaci di quelle americane ma, l’8 dicembre 1943, andarono all’attacco di Montelungo contro le difese tedesche. Tra essi c’era un giovane tenente, Giuseppe Cederle. Poco prima di attaccare disse ai suoi: «Animo, animo ragazzi. Prima di pigliar contatto con il nemico, attingiamo alla nostra fede la forza e il coraggio per essere i degni figli e gli strenui difensori d’Italia. Su, facciamoci tutti il santo segno della croce e recitiamo tutti insieme l’Ave Maria». Cederle fu colpito una prima volta poi una granata gli stroncò il braccio destro. Col sinistro tirò fuori dalla sua giubba un tricolore e fece per lanciarsi di nuovo in avanti restando ucciso. Eugenio Corti si è ispirato alla sua figura per il personaggio di Manno ne Il cavallo rosso.  

L’azione di Montelungo fu un iniziale fallimento ma il battaglione alpino “Piemonte” diede prova delle capacità italiane conquistando con un colpo di mano Monte Marrone il 1° aprile 1944. Dopo di allora venne costituito un Corpo Italiano di Liberazione che, incorporato nel II Corpo d’armata polacco, guidò l’avanzata in Abruzzo e nelle Marche per tutta l’estate del 1944.

Quell’estate vide il ritorno operativo degli incursori della ex Decima Mas che erano rimasti a cooperare con gli Alleati. Il 22 giugno incursori italiani e inglesi penetravano nel porto di La Spezia affondando gli incrociatori Gorizia e Bolzano, risparmiando così alla città altri rovinosi bombardamenti. Sempre gli incursori della Marina militare il 19 aprile 1945, entravano nel porto di Genova e danneggiavano, immobilizzandola, la portaerei italiana Aquila per impedire che fosse affondata dai tedeschi ai fini di bloccare il porto.

I successi ottenuti avevano riscattato la pessima nomea dell’esercito italiano e furono costituiti sei gruppi di combattimento (Folgore, Cremona, Friuli, Legnano, Mantova e Piceno) dei quali solo i primi quattro furono impiegati nell’offensiva finale contro la Linea Gotica per la liberazione di Bologna. A Case Grizzano i paracadutisti italiani si scontrarono con i parà tedeschi della 1^ divisione, i “Diavoli verdi” e riuscirono a conquistare la posizione. Alle prime luci del 21 aprile i bersaglieri italiani entravano a Bologna per via Indipendenza. In quelle stesse ore un battaglione di paracadutisti della Nembo veniva lanciato nelle retrovie tedesche tra Bologna, Ferrara e Mantova mentre il gruppo di combattimento Cremona inseguiva i tedeschi fino a Cavarzere. In un ultimo scontro moriva il capitano Luigi Giorgi, unico combattente della resistenza ad aver ricevuto ben due medaglie d’oro al valor militare.

La guerra era finita e, grazie a quegli uomini, poteva iniziare la rinascita dell’Italia.