La guerra commerciale fra Usa e Cina è ricominciata
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Guerra di dazi e non solo fra Usa e Cina. Trump sfila il canale di Panama a un'azienda di Hong Kong. Volano minacce cinesi di rappresaglia alle tariffe del 20% sulle sue esportazioni negli Usa. E cresce la tensione anche su Taiwan.

La guerra fredda fra Cina e Usa è entrata nel vivo questa settimana, sotto forma di una spietata guerra commerciale e non solo commerciale. La prima mossa non riguarda la Cina stessa, ma Panama, dove le aziende legate a Pechino avevano forti interessi. Come annunciato anche nel discorso al Congresso del 4 marzo, Donald Trump ha premuto sul governo panamense finché questo non ha consentito alla BlackRock (colosso finanziario americano) di comprare la maggioranza delle azioni delle società che controllano i due porti strategici alle estremità del Canale di Panama, acquistandole dalla Hutchinson, azienda di Hong Kong, dunque ormai cinese a tutti gli effetti.
Questa prima mossa è stata accompagnata da un aumento delle tariffe sulle importazioni cinesi. Se ai primi di febbraio Trump aveva annunciato dazi al 10% sui prodotti di Pechino, un mese dopo raddoppiava al 20%, asserendo che la Cina non stesse facendo abbastanza per fermare il traffico di fentanyl, la droga che sta rovinando un’intera generazione di giovani americani, peggio della morfina negli anni Settanta e Ottanta. Se alle prime tariffe, il regime cinese aveva risposto con il blocco dell’esportazione di materiali strategici, fra cui il tungsteno (utile per l’industria militare e per quella spaziale), dopo il raddoppio delle tariffe di questa settimana, Pechino annuncia nuove rappresaglie che colpiranno soprattutto le esportazioni agro-alimentari degli Stati Uniti. Pechino ha annunciato martedì tariffe aggiuntive fino al 15% su alcuni beni Usa a partire dal 10 marzo e una serie di nuove restrizioni all'esportazione nei confronti di società legate alla difesa.
I dazi americani, come aveva annunciato Trump all’inizio del mandato, potrebbero aumentare sino al 60%, praticamente un embargo. E non sono l’unico strumento di pressione. Infatti gli Usa intendono anche ostacolare gli investimenti cinesi negli Stati Uniti e quelli americani in Cina, prendendo di mira soprattutto settori strategici come la cantieristica navale e l’alta tecnologia. La cantieristica, in particolare, preoccupa gli Usa: i cinesi sono attualmente i più grandi costruttori di navi a livello globale e hanno (solo da un punto di vista numerico) la maggiore flotta militare mondiale.
Mentre è in corso il 14° Congresso nazionale del popolo, il vertice del "potere legislativo" nella Cina comunista, l’ambasciata di Pechino negli Usa avverte Washington che è pronta a combattere ogni tipo di guerra: «Se la guerra è ciò che vogliono gli Stati Uniti, che si tratti di una guerra tariffaria, di una guerra commerciale o di qualsiasi altro tipo di guerra, siamo pronti a combattere fino alla fine. Esortiamo gli Stati Uniti a smettere di essere autoritari e a tornare al più presto sulla strada giusta del dialogo e della cooperazione».
Nel frattempo, però, si tratta. Sin da prima dell’insediamento di Trump, il 20 gennaio scorso, il regime di Xi Jinping ha mandato emissari negli Usa per cercare contatti diretti con la nuova amministrazione repubblicana. Dopo l’introduzione delle prime tariffe, in febbraio, i contatti sono addirittura aumentati. Xi conosce bene Trump e nel 2018-20 ha già affrontato, con lui presidente, la prima vera guerra commerciale con gli Usa. Sa dunque quali argomenti toccare e cosa chiedere a Washington. Per la Cina, il mercato globale è ancora di vitale importanza per lo sviluppo. Non può permettersi un “beato” isolamento.
Ma c’è un fronte su cui le due parti non intendono ancora negoziare: Taiwan. Infatti, già all’inizio della nuova amministrazione si è subito aperta una nuova crisi. Dal sito Internet del Dipartimento di Stato Usa è stata rimossa la frase con cui gli Stati Uniti si impegnano a non riconoscere l’indipendenza di Taiwan. Ufficialmente gli Usa non dichiarano alcun cambiamento nella loro politica e dichiarano che si è trattato di un mero aggiornamento del sito. Ma la Cina ha subito organizzato nuove e aggressive esercitazioni aero-navali attorno all’isola “ribelle”: negli ultimi giorni di febbraio, 45 aerei e 14 navi si sono addestrate nelle acque dell’isola, a una quarantina di miglia dalle sue coste.
In un incidente separato, Taiwan ha internato l’equipaggio di una nave mercantile cinese, dietro il sospetto che stesse tagliando i cavi sottomarini delle telecomunicazioni. Una tecnica di sabotaggio che Pechino usa spesso, soprattutto per interrompere la connessione Internet di Quemoy e Matsu, le isole taiwanesi più vicine alla costa del continente.
Se Taiwan dovesse essere attaccata? Trump si è finora rifiutato di rispondere alla domanda, limitandosi a dire che Xi lo rispetta e quindi non succederà. Il presidente americano, in questo modo, rispetta anche la lunga tradizione dell’ambiguità strategica degli Usa. Nel frattempo, la Tmsc, la più grande azienda produttrice di microchip nel mondo, ha annunciato un mega-investimento negli Usa per aprire nuove fabbriche in territorio americano. Una mossa che i vertici di Tmsc definiscono come puramente commerciale, ma che risponde agli interessi fondamentali degli americani. Ora, però, anche in caso di invasione di Taiwan da parte della Cina comunista, gli Usa non perderebbero la fornitura di microchip neanche per un giorno. E questa potrebbe essere una garanzia che viene meno per i taiwanesi.