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PAPA

La gioia del prete? Povertà, fedeltà, obbedienza

L'eredità che ci lascia Gesù è «essere servitori gli uni degli altri». Lo ha detto il Papa nell'omelia della Messa in coena Domini. Al mattino alla Messa crismale si è invece soffermato sulla figura del sacerdote, chiamato a una gioia incorruttibile e missionaria.

Ecclesia 18_04_2014
Papa alla messa crismale

Giovedì 17 aprile 2014 Papa Francesco ha celebrato in mattinata la Messa Crismale in San Pietro, mentre nel tardo pomeriggio si è recato presso l’Opera Don Gnocchi per la Messa in coena Domini. Qui ha definito la lavanda dei piedi – un rito che il Pontefice ha voluto compiere quest’anno con dodici disabili – «un gesto di congedo» di Gesù, «l’eredità che ci lascia»: «essere servitori gli uni degli altri». Lavare i piedi è, ha spiegato Francesco, «un gesto simbolico: lo facevano gli schiavi, i servi ai commensali, alla gente che veniva a pranzo, a cena, perché in quel tempo le strade erano tutte di terra e quando entravano in casa era necessario lavarsi i piedi. E Gesù fa un gesto, un lavoro, un servizio di schiavo, di servo». Un gesto difficile da capire all’epoca, e forse non ovvio neppure oggi. Ma un gesto che attraversa i secoli e arriva fino a noi, perché «pensiamo all’amore che Gesù ci dice che dobbiamo avere per gli altri, e pensiamo anche come possiamo servirle meglio, le altre persone. Perché così Gesù ha voluto da noi».

Nella Messa Crismale, come già aveva fatto l’anno scorso, il Papa ha parlato del sacerdozio. Ha insistito sulla «gioia del sacerdote», che «è un bene prezioso non solo per lui ma anche per tutto il popolo fedele di Dio».

I sacerdoti, ha detto il Pontefice, sono «unti con olio di gioia per ungere con olio di gioia. La gioia sacerdotale ha la sua fonte nell’Amore del Padre», e ha il suo modello nella Madonna. «Il sacerdote è il più povero degli uomini se Gesù non lo arricchisce con la sua povertà, è il più inutile servo se Gesù non lo chiama amico, il più stolto degli uomini se Gesù non lo istruisce pazientemente come Pietro, il più indifeso dei cristiani se il Buon Pastore non lo fortifica in mezzo al gregge». Il sacerdozio è grande, eppure «nessuno è più piccolo di un sacerdote lasciato alle sue sole forze; perciò la nostra preghiera di difesa contro ogni insidia del Maligno è la preghiera di nostra Madre: sono sacerdote perché Lui ha guardato con bontà la mia piccolezza».

Il Papa ha elencato tre caratteristiche della gioia sacerdotale: «è una gioia che ci unge (non che ci rende untuosi, sontuosi e presuntuosi), è una gioia incorruttibile ed è una gioia missionaria che si irradia a tutti e attira tutti, cominciando alla rovescia: dai più lontani». Anzitutto, una gioia che unge, nel senso che «è penetrata nell’intimo del nostro cuore, lo ha configurato e fortificato sacramentalmente». «Unti fino alle ossa… e la nostra gioia, che sgorga da dentro, è l’eco di questa unzione».

Secondo: una gioia incorruttibile, perché al dono del sacerdozio «nessuno può togliere né aggiungere nulla». La gioia sacerdotale «può essere addormentata o soffocata dal peccato o dalle preoccupazioni della vita ma, nel profondo, rimane intatta come la brace di un ceppo bruciato sotto le ceneri, e sempre può essere rinnovata».

Terzo: una gioia «eminentemente missionaria», una caratteristica da «condividere e sottolineare in modo speciale»: l’unzione «è in ordine a ungere il santo popolo fedele di Dio» e perciò la gioia «fluisce solo quando il pastore sta in mezzo al suo gregge (anche nel silenzio della preghiera, il pastore che adora il Padre è in mezzo alle sue pecorelle)». «Anche nei momenti di tristezza, in cui tutto sembra oscurarsi e la vertigine dell’isolamento ci seduce, quei momenti apatici e noiosi che a volte ci colgono nella vita sacerdotale» – «attraverso i quali anch’io sono passato», ha confidato il Papa –, finché si è capaci di ripartire ed essere missionari la gioia rimane come quel fuoco sotto le ceneri che può sempre essere ravvivato.

Tre sorelle difendono la gioia sacerdotale, ha aggiunto Papa Francesco: «sorella povertà, sorella fedeltà e sorella obbedienza».

Prima sorella: la povertà. «Il sacerdote è povero di gioia meramente umana: ha rinunciato a tanto! E poiché è povero, lui, che dà tante cose agli altri, la sua gioia deve chiederla al Signore e al popolo fedele di Dio. Non deve procurarsela da sé». «Molti, parlando della crisi di identità sacerdotale, non tengono conto che l’identità presuppone appartenenza. Non c’è identità – e pertanto gioia di vivere – senza appartenenza». Di qui nascono tante crisi dei sacerdoti. «Il sacerdote che pretende di trovare l’identità sacerdotale indagando introspettivamente nella propria interiorità forse non trova altro che segnali che dicono “uscita”: esci da te stesso». «Se non esci da te stesso, l’olio diventa rancido e l’unzione non può essere feconda».

Seconda sorella: la fedeltà, «una sempre nuova fedeltà all’unica Sposa, la Chiesa. Qui è la chiave della fecondità». Non una Chiesa inventata. Questa Chiesa, qui e oggi. La seconda sorella richiama così la terza: l’obbedienza «alla Chiesa nella Gerarchia che ci dà, per così dire, non solo l’ambito più esterno dell’obbedienza: la parrocchia alla quale sono inviato, le facoltà del ministero, quell’incarico particolare… bensì anche l’unione con Dio Padre, dal quale deriva ogni paternità». 

«In questo Giovedì Santo – ha detto il Papa – chiedo al Signore Gesù che conservi il brillare gioioso negli occhi dei nuovi ordinati, che partono per “mangiarsi” il mondo, per consumarsi in mezzo al popolo fedele di Dio, che gioiscono preparando la prima omelia, la prima Messa, il primo Battesimo, la prima Confessione…». Ma questa «gioia della partenza» spesso si perde con gli anni. Non ci si deve rassegnare alla perdita della gioia sacerdotale. Quando è perduta può tornare, se la si ravviva e si prega. E può rimanere anche nei sacerdoti anziani e malati. «È la gioia della Croce, che promana dalla consapevolezza di avere un tesoro incorruttibile in un vaso di creta che si va disfacendo». C’è anche «la gioia di passare la fiaccola, la gioia di veder crescere i figli dei figli e di salutare, sorridendo e con mitezza, le promesse, in quella speranza che non delude».