La fede di Verdi secondo Benedetto XVI
In occasione dell'84° anniversario dei Patti Lateranensi, l'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede ha offerto in Vaticano a Benedetto XVI e al presidente Napolitano un concerto dell'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, diretta dal maestro Zubin Mehta. Il Papa ha commentato soprattutto l'opera di Verdi, mettendone in risalto la fede, nonostante le tentazioni di un ateismo inquieto.
Nella serata del 4 febbraio, in occasione dell'84° anniversario dei Patti Lateranensi, l'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede ha offerto in Vaticano a Benedetto XVI e al presidente Giorgio Napolitano un concerto dell'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, diretta dal maestro Zubin Mehta.
I commenti della stampa si sono concentrati sull'incontro fra il Papa e Napolitano, rischiando così di trascurare completamente la lezione sulla musica che il Pontefice - appassionato musicologo - ha impartito nel suo discorso.
Il Papa ha commentato l'opera di Giuseppe Verdi (1813-1901) «La Forza del Destino» e la Terza Sinfonia di Ludwig van Beethoven (1770-1827).
L'esecuzione di Verdi, ha spiegato Benedetto XVI, è «un omaggio dovuto al grande musicista italiano nell’anno in cui celebriamo i 200 anni dalla sua nascita».
Verdi - a causa sia del clima anticlericale del Risorgimento sia delle tragedie familiari che lo colpirono, con la prematura morte della prima moglie e dei due figli - passò dalla fede a un ateismo inquieto, mai disgiunto da una ricerca religiosa. «Nelle sue opere - afferma il Pontefice - colpisce sempre come egli abbia saputo cogliere e tratteggiare musicalmente le situazioni della vita, soprattutto i drammi dell’animo umano, in modo così immediato, incisivo ed essenziale come raramente si trova nel panorama musicale».
«È un destino sempre tragico - continua il Papa - quello dei personaggi verdiani a cui non sfuggono i protagonisti de "La Forza del Destino"». L'opera narra l'amore di Leonora, nobile spagnola figlia del marchese di Calatrava, per l'indio di stirpe regale don Alvaro. Il marchese si oppone all'unione della figlia con un indio e, in un tragico confronto con i due amanti, muore colpito accidentalmente da un colpo esploso dalla pistola che don Alvaro ha gettato a terra. Da allora i due giovani fuggono, inseguiti dal fratello di Leonora, don Carlo, che ha giurato di vendicare il padre. Leonora diventa eremita in un monastero italiano, dov'è accolta da un saggio Frate Guardiano. Alvaro prima salva la vita di don Carlo, poi lo ferisce a morte in un duello. Leonora, accorsa al capezzale del fratello morente, è pugnalata da don Carlo, ancora ossessionato dalla vendetta, e spira fra le braccia di Alvaro.
Tutta la vicenda è occasione per Verdi per meditare sull'impossibilità di sfuggire al destino. Ma naturalmente, commenta Benedetto XVI, «affrontando il tema del destino, Verdi si trova ad affrontare direttamente il tema religioso, a confrontarsi con Dio, con la fede, con la Chiesa; ed emerge ancora una volta l’animo di questo musicista, la sua inquietudine, la sua ricerca religiosa».
Vediamo qui come l'ateismo del Verdi maturo sia effettivamente sempre intriso di dubbi e d'interesse per la religione.
Ne «La Forza del Destino», osserva il Papa, «non solo una delle arie più famose, “La Vergine degli Angeli”, è un’ accorata preghiera, ma vi troviamo anche due storie di conversione e avvicinamento a Dio: quella di Leonora, che riconosce drammaticamente le sue colpe e decide di ritirarsi in una vita eremitica, e quella di don Alvaro, che lotta tra il mondo e una vita in solitudine con Dio».
Desta anche l'interesse del Pontefice il confronto fra le due versioni de «La Forza del Destino» proposte da Verdi a distanza di sette anni l'una dall'altra. «È interessante notare come nelle due versioni di quest’opera, quella del 1862 per San Pietroburgo e quella del 1869 per “La Scala” di Milano, i finali cambino: nella prima don Alvaro termina la vita suicida, rifiutando l’ abito religioso e invocando l’inferno; nella seconda, invece, egli accoglie le parole del Frate Guardiano a confidare nel perdono di Dio e l’opera termina con le parole “Salita a Dio”».
Qui, nota ancora il Pontefice, «è disegnato il dramma dell’esistenza umana segnata da un tragico destino e dalla nostalgia di Dio, della sua misericordia e del suo amore, che offrono luce, senso e speranza anche nel buio.
La fede ci offre questa prospettiva che non è illusoria, ma reale; come afferma san Paolo "né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né altezze, né profondità, né alcun’altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore" (Rm 8,38- 39)».
Qualcosa di molto diverso è la Terza Sinfonia di Beethoven, detta «Eroica», che Benedetto XVI definisce «un’opera complessa che segna in modo chiaro il distacco dal sinfonismo classico di [Franz Joseph] Haydn [1732-1809] e [Wolfgang Amadeus] Mozart [1756-1791]». All'origine era dedicata a Napoleone I Bonaparte [1769-1821], in cui Beethoven aveva riposto grandi speranze: ma, come ricorda Benedetto XVI, «il grande compositore tedesco cambiò idea dopo che Bonaparte si proclamò imperatore, mutando il titolo in: “composta per festeggiare il sovvenire di un grand’Uomo”». Beethoven infatti si attendeva che Napoleone promuovesse il passaggio dalle dittature giacobine a una vera democrazia, e l'instaurazione di un regime autocratico con Bonaparte come imperatore lo deluse profondamente.
Qui, nota il Papa, Beethoven «esprime musicalmente l’ideale dell’eroe portatore di libertà e di uguaglianza, che è davanti alla scelta della rassegnazione o della lotta, della morte o della vita, della resa o della vittoria; e la Sinfonia descrive questi stati d’animo con una ricchezza coloristica e tematica fino ad allora sconosciuta».
Dei quattro tempi della sinfonia il più famoso e acclamato è il secondo, «la celebre Marcia funebre, un’accorata meditazione sulla morte, che inizia con una prima sezione dai toni drammatici e desolati, ma che contiene, nella parte centrale, un episodio sereno intonato dall’oboe e poi la doppia fuga e gli squilli di tromba: il pensiero sulla morte invita a riflettere sull’al di là, sull’infinito».
Un pensiero profondamente religioso: e il Pontefice conclude ricordando come in quegli anni, Beethoven, nel testamento di Heiligenstadt dell’ottobre 1802 scriveva: «O Dio, Tu dall’alto guardi nel mio intimo, lo conosci e sai che è colmo d’amore per l’umanità e di desiderio di fare del bene». La grande musica, come la grande arte, è sempre meditazione sul senso della vita e della morte.