La discesa nell’Ade e l’incontro con Caronte
Nel libro VI dell’Eneide, Virgilio descrive la discesa di Enea nell’Ade per incontrare il padre Anchise e per conoscere da lui il destino del popolo troiano. Negli Inferi, accompagnato dalla Sibilla, l’eroe si imbatte nell’orrendo traghettatore Caronte.
Nelle Georgiche di Virgilio, Orfeo entra nell’Ade attraverso le gole del Tenaro, promontorio collocato in Grecia. Il poeta latino racconta la sua tragica vicenda, il suo amore per Euridice, la morte della ninfa in seguito all’inseguimento del pastore Aristeo.
Orfeo decide di scendere nel mondo sotterraneo entrando «nelle fauci del Tenaro, porte profonde di Dite, e nel bosco nebbioso di oscura paura», e affronta i Mani e «il re tremendo e i cuori incapaci di impietosirsi alle preghiere umane». Vuole commuovere gli dei Plutone e Proserpina per ricondurre così Euridice sulla Terra. Incapaci di impietosirsi e di provare misericordia, mossi, tuttavia, dalla bellezza del canto di Orfeo, gli dei cedono, infine, alle sue richieste. Nella narrazione non compare neppure una geografia elementare dell’Ade. Sono citati pochi nomi antichi e mitici dell’Èrebo, il canneto del Cocito e la palude stigia, abitati dalle Eumenidi e da Cerbero con tre teste. Viene nominata soltanto la pena del condannato Issione, che gira ininterrottamente legato a una ruota, che si ferma per l’occasione, di fronte al canto.
I popoli antichi ponevano l’entrata agli Inferi in luoghi che per caratteristiche e suggestione lugubre sembravano nascondere l’accesso alle viscere profonde della Terra. Un’altra di queste entrate nell’Ade era collocata nelle vicinanze di Cuma, nei pressi del Lago Averno, luogo selvaggio e malsano fino alle bonifiche avvenute sotto Augusto, spesso ricoperto da una fitta nebbia e che si prestava, quindi, all’immaginazione di reconditi e spettrali accessi infernali.
Nel libro VI dell’Eneide, Virgilio descrive la più nota delle catabasi della letteratura latina, la discesa di Enea nell’Ade per incontrare il padre Anchise, da poco morto, e per conoscere da lui il destino del popolo troiano. L’eroe conosce dalla Sibilla i due compiti che deve assolvere prima di poter discendere nell’Ade: cercare un ramo d’oro nel bosco e seppellire un amico che è insepolto. Solo a questo punto sarà possibile accedere all’aldilà. Lungo la strada del ritorno Enea si chiede quale sia l’amico insepolto, quando ad un tratto
vedono l’eolide Miseno ucciso da morte indegna;
non un altro era più capace di lui di eccitare col bronzo
gli eroi ed accendere Marte col canto.
Allora Enea e i compagni gli innalzano un altare per il funerale, lo ricoprono di fronde strappate dal bosco. L’eroe troiano, dedito a questo compito, prega gli dei che gli mostrino il sacro ramo d’oro, senza il quale non può discendere nell’Ade. Due colombe gli appaiono e gli indicano la via. Come Enea vede il ramoscello, subito lo coglie, «l’afferra ed avido lo spezza,/ mentre dondola, e lo porta sotto i tetti della profetessa Sibilla». Si celebrano poi i riti funebri per Miseno, presso una pira enorme, piena di resine, ricoperta di armi splendenti, davanti alla quale sono disposti cipressi. I Troiani depongono il corpo su un letto, vi gettano sopra vesti purpuree e bruciano doni di incenso, vivande e olio. Eseguiti i riti funebri per Miseno, Enea e la Sibilla si accingono alla discesa nell’Ade:
C’era una grotta profonda e mostruosamente slabbrata
sulla roccia, difesa da un lago nero e dal buio dei boschi:
sopra di lei nessun uccello impunemente poteva
dirigere il volo, tale il fetore che sprigionandosi
dalla tetra voragine saliva sino alla calotta del cielo.
Dopo aver immolato bestie sacrificali agli dei, all’alba la Sibilla cumana, la celebre sacerdotessa che vaticina nel suo antro, inizia appunto il viaggio nell’Ade in compagnia di Enea. Entrati nel regno dei morti, in mezzo ad una folta nebbia, i due viandanti vedono il vestibolo.
Proprio davanti al vestibolo, sul primo imbocco dell’Orco,
il Lutto e i Rimorsi vendicativi hanno la loro tana;
abitano pallide le Malattie e la triste Vecchiaia
e la Paura e la Fame sconsiderata e la turpe Miseria,
forme tutte orrende a vedersi, e la Morte e l’Angoscia;
poi, consanguineo alla Morte, il Torpore, e i Pensieri morbosi,
e sul versante opposto la Guerra assassina, e le cucce
di ferro delle Eumenidi, e la Discordia demente,
le vipere dei capelli legate da bende di sangue.
Si animano qui di fronte ad Enea enormi mostri, Centauri, Scille biformi, i giganti, la Chimera, le Gorgoni, le Arpie. Sono solo fantasmi incorporei, ma, ignaro di ciò, Enea estrae la spada per affrontarli. La Sibilla lo avverte della loro inconsistenza e dell’inanità del suo sforzo. Appare allora davanti agli occhi del pio troiano il fiume Acheronte, le cui acque defluiscono nel Cocito. Orrendo traghettatore, Caronte sta a guardia del fiume, accompagna le anime da una sponda all’altra. La descrizione virgiliana è impressionante e suggestiva:
portitor has horrendus aquas et flumina servat
terribili squalore Charon, cui plurima mento
canities inculta iacet, stant lumina flamma,
sordidus ex umeris nodo dependet amictus.
ipse ratem conto subigit velisque ministrat
et ferruginea subvectat corpora cumba,
iam senior, sed cruda deo viridisque senectus.
In traduzione:
Caronte, traghettatore orrendo, di orribile squallore controlla
il corso delle acque: una prolissa canizie
gli penzola incolta dal mento; sgrana la fiamma degli occhi;
dalle spalle gli penzola annodato un lercio mantello.
È lui che con una pertica spinge la barca e governa
le vele, e dentro lo scafo nerastro traghetta i morti,
vecchissimo, ma della cruda e verde vecchiaia d’un dio.
La lingua latina si presta ad una forza rappresentativa e descrittiva particolare. Il traghettatore del fiume s’impadronisce della mente del lettore, occupando sette versi: il suo nome con relativi apposizione e attributo si dispiega al caso nominativo (caso del soggetto) addirittura per un verso e mezzo («portitor […] horrendus […]/ […] Charon»); la paura che suscita il suo aspetto è sottolineata dagli aggettivi («horrendus», «terribili»); tre soli particolari (la barba bianca che scende dal mento, gli occhi infiammati, il sordido mantello che pende dalle spalle) rendono il suo ritratto indimenticabile. Nei versi Caronte non proferisce parole, ma esegue il suo compito, trasportare le anime da una sponda all’altra del fiume. I verbi latini («subigit», «subvectat») ben descrivono l’azione del traghettatore che spinge la barca col remo che si immerge nell’acqua, compito che si svolge da tempi immemorabili tanto che il vascello è ormai color della ruggine («ferruginea») mentre il nocchiero è vecchio («senior») pur conservando le caratteristiche di un essere immortale e divino («sed cruda deo viridisque senectus»).
La descrizione di Caronte nell’Inferno dantesco risente senz’altro dei versi virgiliani. Nell’ultima parte del canto III presso la riva dell’Acheronte sono assiepate tantissime anime che aspettano di salire sulla barca del traghettatore Caronte, «bianco per antico pelo», dalle «lanose gote», che intorno agli occhi ha «di fiamme rote». Il Caronte dantesco è particolarmente drammatico e spaventa le anime anche con la parola. Dante lo vede arrivare sulle onde del fiume Acheronte:
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.
Quando vede Dante, Caronte lo rimprovera perché è vivo e gli profetizza che non finirà all’Inferno:
E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,
disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».
Virgilio allora rabbonisce il nocchiero dagli occhi infuocati e iniettati di sangue avvertendolo che il viaggio è voluto dal Cielo ed è inutile opporvisi. Solo allora Caronte tace.
Tante sono le anime sia presso l’Acheronte virgiliano che lungo le rive del fiume dantesco. Ne parleremo nella prossima puntata, quando Enea dovrà superare tante prove, tra cui il gigantesco Cerbero dalle tre teste.