La crisi? E' cominciata con il divorzio
Il quarantesimo anniversario del referendum sul divorzio, dovrebbe far riflettere sul crollo demografico che ne è seguito e sulle drammatiche conseguenze economiche e sociali che ha provocato. Per cambiare rapidamente strada.
Che il 40esimo anniversario del referendum sul divorzio - svoltosi il 12 maggio del 1974 con la vittoria dei no all’abrogazione della legge che quattro anni prima l’aveva introdotto in Italia – fosse l’occasione per le solite celebrazioni sulla conquista dei diritti civili era scontato. Altrettanto scontato sentir celebrare l’ingresso nella modernità a cui partecipò anche la parte più “illuminata” del cattolicesimo italiano, ovviamente quella che si schierò per il “no all’abrogazione”. Il tutto a testimonianza della maturità raggiunta dal popolo italiano, maturità che – tra parentesi – deve essere stata persa un po’ più avanti vista la situazione in cui ci troviamo oggi.
C’è però una notazione originale che fa Pierluigi Battista sul Corriere della Sera che merita una riflessione. Sostiene infatti Battista che in quell’occasione la passione civile ebbe la meglio sulla logica dei partiti. E questo si tradusse nel fatto che furono due parlamentari, uno della maggioranza e uno dell’opposizione - il liberale Baslini e il socialista Fortuna – a prendere l’iniziativa e ad “autonomizzare” il Parlamento che riuscì ad approvare una legge che il governo (a guida democristiana) non avrebbe mai accettato. E Battista sostiene che questo è quello che ci vorrebbe oggi sui cosiddetti “temi eticamente sensibili”, formare maggioranze parlamentari diverse da quelle di governo per superare l’attuale stallo: si preferisce infatti «non legiferare piuttosto che correre il rischio di pur fisiologiche divisioni».
A parte il fatto che non è completamente vero, e basta vedere chi sostiene la legge sull'omofobia, la posizione di Battista è interessante perché in fondo ricalca quella che 40 anni fa portò tanti cattolici a votare per il divorzio, ovvero la convinzione che non ci sia relazione diretta tra etica ed economia, etica e società, etica e politica. In altre parole famiglia e vita sono materie separate da economia, infrastrutture, politiche sociali e così via, la loro specificità è solo quella di essere “sensibili”, che a questo punto viene il sospetto che significhi “portate avanti da persone fissate con le rispettive ideologie”. Così nasce l’idea che schierarsi contro il divorzio o contro l’aborto e per la promozione della famiglia naturale sia il tentativo di imporre la morale cattolica a una società laica.
Ma tale approccio è esattamente ciò che 40 anni di storia “post-referendum sul divorzio” smentiscono nettamente. Come abbiamo avuto modo più volte di sottolineare la crisi economica che stiamo attraversando ha una causa strutturale che tutti fanno a gara per occultare: l’inverno demografico, ovvero la forte denatalità. E guarda caso, questo inverno comincia proprio con l’introduzione del divorzio. A metà degli anni ’60 in Italia c’era stato il baby boom (nascevano 2,7 figli per donna) e ancora nel 1970 il tasso di fecondità sfiorava i 2,5 figli per donna. Da qui però comincia la discesa, dapprima lieve poi un vero e proprio crollo dopo il referendum. Al punto che già all’inizio degli anni ’90 l’Italia aveva raggiunto i livelli minimi di fecondità, a 1,2 figli per donna.
Coincidenza? Non proprio. Non ci vogliono certo gli specialisti per capire che la fecondità è aiutata dalla stabilità familiare. I figli nascono in genere all’interno di un progetto che è per la vita. Se ci si unisce con la prospettiva di qualche anno o “finché dura l’amore” è ovvio che si sarà meno propensi a mettere al mondo dei figli, che poi – se si divorzia - sono tutte beghe legali. E infatti i numeri sono lì impietosi a farsi beffe di tutte le ideologie e i discorsi sulla modernità. Sancita la legittimità del divorzio, teorizzata la precarietà del rapporto, ratificata dal voto popolare, ecco il crollo demografico.
Non solo: se va in crisi quella che la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo definisce la “cellula fondamentale della società” e la nostra Costituzione “società naturale”, inevitabilmente tutta la società tenderà a una maggiore conflittualità e lacerazione. E’ come il nostro corpo: se ci sono alcune cellule tumorali in giro, non si ammala solo un unico organo ma tutto il corpo ne soffre e alla fine muore. Così è per la società: come si può pensare di superare la conflittualità sociale o sentire l’appartenenza a un popolo se per legge si è deciso di rendere conflittuale e instabile la famiglia, sua cellula fondamentale?
Ecco perché a proposito di famiglia e vita si deve parlare di “princìpi non negoziabili” e non di “temi eticamente sensibili”. Perché sono i fondamenti su cui si deve costruire una società, pena la sua cancellazione dalla storia, e non una delle tante materie di cui un governo si occupa. E allora, se è così, è ovvio che la visione su vita e famiglia costituisce il primo punto su cui dovrebbero decidersi le maggioranze di governo. Altro che Parlamento autonomo. Oggi per far saltare un governo o una coalizione basta il dissenso su un articolo della legge elettorale, e si pretende che la questione famiglia, da cui dipende anche l’economia del paese, sia relegata in un recinto o affidata a maggioranze parlamentari estenporanee?
A quaranta anni dal referendum sul divorzio, anziché introdurre il divorzio breve, come sta avvenendo, bisognerebbe proprio riflettere sui numeri di questi 40 anni e rimettere famiglia, vita e libertà di educazione al centro dell’agenda politica, parlamentari e ministri cattolici inclusi. Se vogliamo avere un futuro.