La Cina non è più vicina L'India lo sarà
La Borsa di Shanghai ha cominciato la settimana con forti perdite. Nella giornata il suo indice complessivo ha perso il 5,3 per cento, e anche l’analogo indice Hang Seng della Borsa di Hong Kong ne ha risentito, seppure in minor misura. Si potranno poi verificare anche delle oscillazioni di segno opposto, ma nella sostanza è ormai evidente che la crisi dell’economia cinese, per dimensioni la seconda del mondo, non è affatto destinata a risolversi in quattro e quattr’otto.
Ieri la Borsa di Shanghai ha cominciato la settimana con forti perdite. Nella giornata il suo indice complessivo ha perso il 5,3 per cento, e anche l’analogo indice Hang Seng della Borsa di Hong Kong ne ha risentito, seppure in minor misura (- 2,8 per cento). Si potranno poi verificare anche delle oscillazioni di segno opposto, ma nella sostanza è ormai evidente che la crisi dell’economia cinese, per dimensioni la seconda del mondo, non è affatto destinata a risolversi in quattro e quatttr’otto.
Nel tentativo di frenarla, il governo di Pechino procede da par suo con iniziative di tipo autoritario, ad esempio vietando per decreto la vendita di titoli ai proprietari cinesi di grandi pacchetti azionari, ma ovviamente senza che ciò basti a cambiare le cose. Inoltre, ha favorito la svalutazione rispetto al dollaro del renminbi, la valuta cinese, ma nel caso concreto si tratta di un’arma a doppio taglio. Da un lato, infatti, favorisce le esportazioni cinesi, ma dall’altro aumenta il costo del rimborso di prestiti in dollari che negli ultimi anni molti importanti gruppi industriali della Cina hanno contratto sui mercati finanziari internazionali e specialmente su quello americano.
Siamo insomma alla fine (prevedibile e inevitabile) del modello di sviluppo su cui la Cina post-maoista aveva puntato: quella di un’economia che, trascurando lo sviluppo del mercato interno, marcia alla conquista dei mercati occidentali producendo e vendendo prodotti di largo consumo a prezzi concorrenziali grazie al suo basso costo del lavoro. É un modello aggressivo, ma a lungo termine suicida: in un primo tempo sembra vincente, ma poi si inceppa a causa dei contraccolpi della crisi produttiva e quindi sociale che inevitabilmente mette in moto nei Paesi di cui ha conquistato i mercati. Se poi si considera che tanto la Cina quanto gli altri Paesi postisi sulla sua scia hanno finanziato questa loro politica, appunto con prestiti in dollari facilmente acquisibili negli anni scorsi sul mercato finanziario statunitense, non si stenta a capire di fronte a quali difficoltà si trovino adesso.
In un’economia mondiale che ormai è definitivamente globalizzata una situazione del genere si riflette negativamente sull’intero suo attuale motore principale, ossia l’interscambio fra l’Occidente, il Giappone e appunto la Cina. Ormai da 46 mesi i prezzi alla fabbrica dei manufatti cinesi stanno diminuendo. Tenuto conto del ruolo-chiave che la Cina ha oggi sul mercato manifatturiero mondiale ciò significa che sull’economia del mondo incombe oggi il peggior pericolo possibile: la deflazione, ossia un circolo vizioso in cui una generale caduta dei prezzi e una generale caduta della domanda si rincorrono con effetti perversi.
Ciò conferma quanto l’Occidente abbia sbagliato puntando troppo le sue carte sulla Cina e trascurando invece l’India, l’altro gigante demografico dell’Estremo Oriente, che da un lato mira invece a uno sviluppo orientato alla crescita del mercato interno e dall’altro, come eredità positiva del suo lungo periodo di soggezione alla Gran Bretagna, ha una qualità dell’alta formazione, delle infrastrutture, una cultura politica e un sistema giuridico che bene la candidano a diventare il grande e stabile partner di un’Europa che non lasci trascinare dalla preferenza che invece gli Stati Uniti hanno per la Cina per motivi sia storici che geo-politici.
Beninteso senza voltare le spalle alla Cina, il che non sarebbe né saggio né realistico, occorre riequilibrare il rapporto con l’Oriente dando in fretta molto più spazio all’India e anche all’Indonesia e facendo pure una politica di sostegno allo sviluppo dell’Africa dove invece, seppur con tutti i suoi limiti, la domanda è in crescita. In tutto questo il nostro Paese potrebbe fare molto come antesignano di un’Unione Europea non più avvitata su se stessa e perciò davvero impegnata a riportare la pace nel Levante, che è la porta dell’Europa verso l’Estremo Oriente. Anche per questo, oltre che per evidenti motivi di ordine umanitario, occorre risolvere presto e bene la kafkiana vicenda dei due fucilieri di Marina italiani sotto accusa in India.
Una prospettiva del genere potrebbe sembrare magari affascinante, ma di troppo lungo periodo in una situazione come la presente che esige miglioramenti a breve termine. In realtà, invece non è così: dal momento che l’attuale crisi ha radici più culturali e psicologiche che prettamente economiche, un cambiamento di orizzonti avrebbe un immediato e forte effetto moltiplicatore poiché risveglierebbe energie e risorse che sono già sul mercato, ma che finora restano come assopite.