La Cina "mangia" Hong Kong con la nuova legge elettorale
Hong Kong è scomparsa. Esiste ancora sulle mappe, ma è ormai parte a tutti gli effetti della Repubblica Popolare Cinese, mantenendo un'autonomia solo di facciata. La nuova legge elettorale, infatti, imposta direttamente dal Partito Comunista Cinese, è stata scritta apposta per garantire automaticamente la maggioranza ai deputati filo-Pechino.
Hong Kong è scomparsa. C’è ancora nelle mappe, ma non viene più indicata come entità statuale autonoma. Anche nella prestigiosa classifica della libertà economica, l’Index of Economic Freedom, dove figurava regolarmente al primo o al secondo posto, in tutte le edizioni, adesso non c’è più. E’ parte della Cina. L’Index è redatto da Heritage Foundation, conservatrice, e dal Wall Street Journal, enti che non sono stati certamente convinti dal regime di Pechino ad eliminare Hong Kong dal loro studio. Hanno semplicemente fotografato una realtà. Hong Kong, che era un paradiso per gli investitori, un rifugio sicuro per i religiosi perseguitati in Cina, un’isola felice di libertà di espressione, adesso è solo una delle tante grandi metropoli del colosso comunista asiatico. Lo è diventato, a maggior ragione, questa settimana. Giovedì, infatti, è stata approvata quasi all’unanimità (1 solo astenuto) all’Assemblea Nazionale del Popolo, a Pechino, una nuova riforma elettorale dell’ex colonia britannica. Con la quale, il Partito Comunista Cinese stabilisce un controllo diretto sull’enclave.
Già la città-Stato non poteva essere definita democratica, nel senso pieno del termine: solo metà del Consiglio Legislativo è eletto dal popolo, l’altra metà è costituita da rappresentanti di aziende, corporazioni e gruppi d’interesse tradizionalmente fedeli a Pechino. L’onda lunga delle proteste, durate dal 2013 fino al 2019, era motivata dalla mancata riforma democratica del Consiglio, una delle tante promesse non mantenute dopo il ritorno di Hong Kong sotto la sovranità cinese. La riforma imposta da Pechino, che segue a ruota l’introduzione della nuova Legge per la sicurezza nazionale, cambia il numero di seggi del Consiglio legislativo, da 70 attuali a 90. Porta alla costituzione di un Comitato di revisione che vaglierà l’eleggibilità dei candidati. Stabilisce anche un allargamento della Commissione elettorale (con l’aggiunta di 300 membri della Conferenza consultiva del popolo cinese) che garantisce automaticamente la maggioranza ai delegati fedeli al Partito. Cancellati, invece, i seggi riservati ai consiglieri distrettuali, democraticamente eletti.
Il Comitato di revisione si occuperà di “esaminare e confermare le qualifiche patriottiche” dei comitati e dei candidati politici. Al termine “patriottico”, Xi Baolong, a capo dell’Ufficio per gli affari di Hong Kong e Macao, dà questa definizione: coloro che “hanno sinceramente salvaguardato la sovranità nazionale, la sicurezza e gli interessi di sviluppo; rispettato il sistema fondamentale del Paese e l’ordine costituzionale della città; e hanno fatto tutto il possibile per mantenere la sua prosperità e stabilità”. Per sovranità nazionale si intende: quella della Repubblica Popolare Cinese. Mentre per “sistema fondamentale del Paese” ci si riferisce a quello del Partito Comunista.
A questa riforma, che lascia ad Hong Kong un’autonomia solo di facciata, non può opporsi più nessuno. Carrie Lam, a capo dell’esecutivo, saluta con favore la riforma. Volente o nolente, ha traghettato la sua città dalla piena autonomia alla piena annessione cinese, dopo aver sedato le proteste del 2019. Non esiste più alcuna opposizione organizzata. Fra i leader democratici, 47 sono finiti in carcere, ieri il tribunale locale ha respinto la richiesta di libertà su cauzione di 10 di essi, altri 11 hanno ritirato la domanda, solo 5 sono in libertà. La loro unica colpa è quella di aver organizzato le elezioni primarie per il Partito democratico, in vista del voto per il Consiglio legislativo. Il processo si aprirà il 31 maggio, molti di loro rischiano l’ergastolo, perché anti-patriottici, quindi potenzialmente colpevoli di “sovversione” o “separatismo”.
Con il processo ai democratici e l’introduzione di una riforma elettorale che taglia loro la strada ad ogni successiva tornata elettorale, si completa la distruzione del principio “un Paese, due sistemi”, inaugurato nel 1997 quando Hong Kong era stata restituita dal Regno Unito alla Repubblica Popolare Cinese. Ora sarà molto più difficile che quest’ultima convinca pacificamente anche Taiwan ad una pacifica riunificazione sulla base dello stesso principio. Ed è anche per questo che, all’inizio dell’anno, come tutti gli anni, Pechino ha minacciato l’uso della forza contro l’isola “ribelle”. Assorbita Hong Kong, quando toccherà a Taiwan?