La Cina “liberalizza” la procreazione
Squilibrio tra maschi e femmine, riduzione della popolazione attiva, aumento degli anziani. Tardivamente la Cina cerca di ovviare ai disastri della politica del figlio unico
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La politica del figlio unico varata in Cina nel 1979 ha determinato, oltre che uno squilibrio tra maschi e femmine, un invecchiamento della popolazione e una riduzione di quella in età lavorativa. Le sue conseguenze negative sia sociali che economiche sono diventate evidenti durante lo scorso decennio. Per ovviarvi tra il 2013 e il 2014 il governo ha consentito alle coppie formate da almeno un figlio unico di avere due figli e nel 2016 la legge è stata soppressa. Ma la sua abolizione non ha dato i risultati sperati. Nel 2018 sono nati solo 15,23 milioni di bambini, nel 2019 il numero delle nascite è ulteriormente sceso a 14,65 milioni, il tasso di natalità più basso in 70 anni, e nel primo semestre del 2020 si è registrato un ulteriore decremento delle nascite. Nel nuovo Piano quinquennale 2021-2025 non si accenna al controllo delle nascite, che era ancora contemplato nel piano precedente, relativo al 2016-2020, e si parla invece di "fecondità inclusiva" e di “ottimizzare la politica sulla fertilità e migliorare la qualità della popolazione”. In altri termini, dovrebbe essere possibile avere figli senza restrizioni. La politica del figlio unico è stata applicata per decenni con rigore, con sanzioni, carcere, sequestro dei beni per i trasgressori e gravissime violazioni dei diritti umani, dalle sterilizzazioni forzate di maschi e femmine agli aborti forzati. In molti casi però aborto e addirittura infanticidio sono stati decisi spontanemante nel caso il primogenito fosse femmina, per non perdere la possibilità avere di un più ambito figlio maschio. Con l’India, la Cina è il paese in cui si sono praticati più aborti selettivi. Forzati o scelti, si stima che siano stati effettuati circa 400 milioni di aborti.