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COMUNISMO E ISLAM

La Cina diventa anti-israeliana, per contare di più nel Medio Oriente

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La Cina sostiene materialmente Hamas in molti modi. Ma soprattutto ha lanciato una dura campagna di propaganda contro Israele con inediti toni anti-semiti. Nonostante la lontananza, Pechino è pienamente coinvolta nel Medio Oriente. 

Esteri 03_11_2023
Polizia cinese presidia l'ambasciata di Israele

Cosa c’entra la Cina con il Medio Oriente? Apparentemente si tratta di due realtà politicamente e geograficamente agli antipodi. Eppure il regime comunista di Pechino è sempre più direttamente coinvolto nel conflitto mediorientale. Sin da subito, stupendo gli stessi israeliani, ha preso una posizione nettissima contro lo Stato ebraico. «I corpi delle 1.400 vittime israeliane e delle 30 americane non erano ancora freddi prima che i media statali cinesi cominciassero a diffondere titoli incendiari», scrive l’antropologo Steven Mosher, uno dei maggiori conoscitori e critici della Cina comunista. Per Mosher, così come per altri osservatori, non si tratta solo di una legittimazione politica e di propaganda. La Cina starebbe materialmente appoggiando Hamas e soprattutto il suo sponsor regionale, l’Iran.

Il sospetto più romantico e meno probabile, derivato da fonti di dissidenti cinesi tutte ancora da verificare, riguarda il leader dell’ala militare di Hamas, Mohammed Deif. Sua moglie, dicono i dissidenti, è una musulmana cinese. L’avrebbe conosciuta in un periodo trascorso nella Repubblica Popolare, dove avrebbe ottenuto, oltre alla sua futura dolce metà, anche un addestramento extra. Di Deif si sa però molto poco. L’unica foto che è stata diffusa è vecchia, risale alla fine degli anni 80. Non appare mai in pubblico, comunica con messaggi audio pre-registrati. Gli stessi servizi segreti israeliani lo considerano un obiettivo difficile da scovare. La moglie (palestinese) e due figli sono morti in un bombardamento israeliano, nella guerra di Gaza del 2014. Possibile che dissidenti cinesi sappiano che si è risposato con una musulmana di etnia Dongxiang? È comunque credibile che Hamas e i suoi leader abbiano ricevuto addestramento in Cina, come da tradizione maoista di sostegno ai gruppi armati palestinesi.

Ci sono prove più solide dell’esistenza di un legame fra la Cina comunista e il partito armato islamista. La prima è la tecnologia. Per comunicare, Hamas usa tecnologia solo cinese. Per muovere i suoi capitali all’estero, i dirigenti del partito palestinese passano attraverso banche cinesi. Fra le armi osservate nell’attacco a Israele del 7 ottobre, molte sono di fabbricazione russa e cinese. Fra quelle sequestrate dagli israeliani, sin dai primi giorni di guerra, figurano anche molti razzi e altre armi della Corea del Nord. Le vie del contrabbando saranno anche contorte, ma difficilmente un traffico di armi dalla Corea del Nord (la cui sopravvivenza dipende interamente da Pechino) può passare inosservato in Cina.

Quel che è invece lampante è la campagna di propaganda che la Cina ha scatenato (o lasciato scatenare, da influencer apparentemente indipendenti) contro Israele, con toni che arrivano all’antisemitismo. Le ricerche e le menzioni che coinvolgono l’espressione “antisemita” sono salite alle stelle sull'applicazione cinese WeChat. Nelle notizie sui disordini in Medio Oriente, alcuni commenti sono vere e proprie minacce contro gli ebrei. Utenti che si identificano come ebrei hanno subito linciaggi online. «Hamas è stato sin troppo gentile. Israele è la versione ebraica del nazismo e del militarismo», scrive l’influencer Su Lin. E nessuno la censura, come constata Steven Mosher. In un paese in cui tutta l’informazione è controllata capillarmente, non può che essere un linciaggio voluto dal regime. Il tentato omicidio di un dipendente dell’ambasciata di Israele a Pechino, pugnalato in un supermercato il 12 ottobre, è indice di questo clima di odio, oltre che essere un altro caso sospetto, in un paese che vanta la massima sicurezza (specie per il personale diplomatico).

La Cina ha sempre tenuto buone relazioni con Israele e vantato un passato di amicizia con gli ebrei. Decine di migliaia dei quali avevano trovato rifugio a Shanghai, per fuggire dall’Europa, durante la Seconda Guerra Mondiale. Ora, una campagna online chiede la chiusura del museo dei rifugiati ebrei a Shanghai. Sia la Cina che il Giappone (che allora occupava le regioni settentrionali e costiere) non hanno mai perseguitato gli ebrei, entrambe, quando è stato possibile, li hanno aiutati a fuggire. Dunque non c’è alcun risveglio antisemita, come potrebbe esserci in Europa, Russia o Medio Oriente, perché manca un passato di antisemitismo. Si tratta di un fenomeno nuovo, molto probabilmente montato ad arte e per scopi politici. Questo mese, ad esempio, la televisione di Stato ha mandato in onda uno speciale su come gli ebrei avrebbero manipolato le elezioni negli Usa: «Gli ebrei sono solo il 3% della popolazione statunitense, ma controllano il 70% della sua ricchezza», cifre false per instillare paura e risentimento, come nella peggior tradizione della propaganda nazista.

Ma allora a cosa mira la Cina, attaccando Israele e sostenendo Hamas? Ufficialmente Pechino è neutrale ed equidistante e si propone come mediatore fra le parti. In pratica, la Cina ha rapporti sempre più stretti con l’Iran che è attualmente il maggior sponsor di Hamas. Il maggior successo cinese nella diplomazia mediorientale è stato l’aver negoziato il riavvicinamento fra Iran e Arabia Saudita e agitare lo spettro del vecchio nemico “sionista” è funzionale al consolidamento del loro legame. Questo disegno è diametralmente opposto a quello statunitense, che mira invece alla normalizzazione fra Israele e Arabia Saudita, per combattere il comune nemico iraniano. La Cina è in rapporti sempre più stretti anche con la Turchia e l’ostilità a Israele serve ad avvicinare il presidente islamico Recep Tayyip Erdogan. Il quale ha anche smesso di difendere la causa degli uiguri, popolo musulmano e turcofono, duramente perseguitato dalla Cina comunista. La causa palestinese, infine, è molto popolare trasversalmente in tutto il “Sud Globale”, di cui la Cina vorrebbe diventare leader economico e anche politico.