La Chiesa, la Cina e la “sorpresa” del card. Costantini
Celso Costantini fu per 11 anni delegato apostolico in Cina. Si spese per far applicare la Maximum illud di Benedetto XV, che a ragione esortava i missionari a formare un clero indigeno. Si stupiva che i cattolici cinesi fossero ancora pochi. Ma oggi, forse, si stupirebbe di più...
Quando si guarda a grandi figure del cattolicesimo cinese, si deve per forza di cose parlare anche di coloro che cinesi non sono ma che hanno avuto un’importanza profonda nello sviluppo della Chiesa cinese.
Una delle figure più rappresentative fu quella di Celso Costantini (1876-1958), friulano di Castions di Zoppola. Fu ordinato sacerdote nel 1899, coltivava un profondo interesse per l’arte cristiana, tanto da divenire una figura di riferimento in questo campo. Nel 1920 divenne amministratore apostolico di Fiume, dove imperava Gabriele D’Annunzio, con cui allacciò un rapporto cordiale. Nel 1921 venne nominato vescovo. L’anno successivo, Pio XI decise di affidargli una missione importante: quella di delegato apostolico in Cina.
La Cina non era territorio semplice e ancora oggi è terreno di enormi sfide per l’evangelizzazione. Il Costantini fu sorpreso da questa notizia, perché egli non conosceva il cinese (e del resto non lo conoscerà mai bene) e non credeva di essere la persona adatta. Comunque accettò e partì per la Cina, dove rimase per 11 anni. La situazione in Cina, come detto, non era per niente semplice. C’erano opposizioni più o meno velate alla missione di Costantini specie dal governo francese, che a quel tempo arrogava a sé la protezione delle missioni cattoliche in Oriente. Questo era motivo anche di contrasto e discordia con i cinesi che avevano l’appiglio per poter dire che il cattolicesimo era una religione straniera: europea, non cinese.
C’erano anche forti venti anticristiani che ancora soffiavano dalla rivolta dei Boxer ad inizio secolo e che erano fomentati anche da correnti bolsceviche che si erano fatte strada nel paese di mezzo. Del resto, nel 1919, Benedetto XV aveva dato un nuovo impulso alle missioni con la lettera apostolica Maximum illud. In essa il papa faceva affermazioni che sembravano voler spingere i missionari stranieri a non coltivare un certo esclusivismo: «Al contrario, quanto sarebbe riprovevole la condotta di colui che, essendogli stata assegnata da coltivare una parte della vigna del Signore, la considerasse come esclusiva sua proprietà, geloso che altre mani gliela tocchino. E quale tremenda responsabilità non verrebbe egli ad incontrare dinanzi all’eterno giudice, specialmente se trovandosi la sua piccola cristianità – come spesso avviene – quasi perduta in mezzo ad una moltitudine di infedeli e non bastando alla catechizzazione di questi la sua opera con quella dei suoi, si ostinasse a non chiedere l’aiuto di altri cooperatori! Invece il Superiore della Missione, che è premuroso soltanto della gloria di Dio e della salvezza delle anime, se occorre chiama cooperatori da ogni parte perché lo aiutino nel suo santo ministero, senza badare se essi siano di un altro Ordine o di diversa nazionalità, "purché ad ogni modo sia annunziato Cristo"; e non chiama solo coadiutori, ma anche coadiutrici, per le scuole, per gli orfanotrofi, per i ricoveri, per gli ospedali, ben persuaso che tutte queste opere di carità sono un mezzo efficacissimo nelle mani della divina Provvidenza per la propagazione della Fede. Inoltre, il buon Superiore della Missione non restringe la sua azione al suo solo territorio, disinteressandosi di quanto accade al di fuori; ma quando lo richieda la carità di Cristo o la sua gloria – la sola cosa che a lui importi – cerca di stare in relazione con i suoi colleghi confinanti».
Aggiungeva Benedetto XV: «Affinché però possa conseguire i frutti sperati, è assolutamente necessario che il clero indigeno sia istruito ed educato come si conviene. Non è quindi sufficiente una formazione qualsiasi e rudimentale, tanto da poter essere ammesso al sacerdozio, ma essa deve essere completa e perfetta come quella che si suol dare ai sacerdoti delle nazioni civili. Insomma, non si deve formare un clero indigeno quasi di classe inferiore, da essere soltanto adibito nelle mansioni secondarie, ma tale che, mentre si trovi all’altezza del suo sacro ministero, possa un giorno assumere egli stesso il governo di una cristianità. Poiché, come la Chiesa di Dio è universale, e quindi per nulla straniera presso nessun popolo, così è conveniente che in ciascuna nazione vi siano dei sacerdoti capaci di indirizzare, come maestri e guide, per la via dell’eterna salute i propri connazionali. Dove dunque esisterà una quantità sufficiente di clero indigeno ben istruito e degno della sua santa vocazione, ivi la Chiesa potrà dirsi bene fondata, e l’opera del Missionario compiuta. E se mai si levasse il nembo della persecuzione per abbattere quella Chiesa, non vi sarebbe da temere che, con quella base e con quelle radici così salde, essa non soccomberebbe agli assalti nemici».
Insomma, nella Maximum illud, si richiamavano i missionari a formare e riconoscere il clero indigeno, non considerandolo di seconda categoria. Costantini si spese molto in questo senso e nei suoi numerosi scritti faceva continuamente riferimento al fatto che la missione non dovesse essere un travaso di un elemento europeo in terra cinese, ma un germogliare di una cristianità locale. Certo, questo sembra essere molto logico ma alcuni, forse anche con buone ragioni, criticavano il Costantini che identificava la cultura cattolica come europea. Se è vero che in essa ci sono elementi che potrebbero essere declinati con accezioni culturali diverse, essa però ha un valore universale, come nella liturgia.
Molti eventi importanti avvennero durante il tempo di mons. Costantini in Cina, pensiamo al Sinodo di Shanghai del 1924 e all’ordinazione di sei vescovi cinesi a Roma nel 1926, i primi dal XVII secolo. Certamente fu una cosa buona avere dei presuli cinesi, ma sempre nel senso tracciato da Benedetto XV: cioè, era importante avere un clero locale ma che fosse ben formato ed effettivamente in grado di guidare la cristianità del posto. In questo senso non dimentichiamo che mons. Costantini fu anche fondatore di una congregazione di sacerdoti cinesi, la Congregazione dei discepoli del Signore (Congregatio Discipulorum Domini), fondata nel 1927 e ancora esistente.
Tornato in Italia, lavorò a Propaganda Fide sempre per implementare la nuova politica missionaria, anche promuovendo l’uso della lingua locale nella liturgia. Nel 1954 venne creato cardinale. Morì nel 1958. Oggi è Servo di Dio, ed è in corso la causa per la sua beatificazione.
L’opera di Costantini è vasta e complessa ed è testimoniata dai suoi scritti e dalle sue fondazioni. Da esse si evince come egli avesse veramente a cuore il popolo cinese e come si sorprendesse che dopo secoli di evangelizzazione, facendo riferimento a Macao (ma lo stesso valeva anche per Hong Kong), i cattolici fossero nemmeno il 5% della popolazione (e nella Cina continentale la percentuale è ancora più bassa). Forse rimarrebbe ancora più sorpreso del fatto che, dopo decenni in cui la Chiesa locale è quasi completamente nelle mani del clero indigeno, la situazione sia rimasta sostanzialmente invariata.