La carne coltivata non soppianta la zootecnia e non è una panacea
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Nel dibattito sul divieto imposto alla carne coltivata, l'ideologia è stata dominante, da una parte e dall'altra. Però: la carne coltivata non soppianterà gli allevamenti, per lo meno non nel breve periodo. E dall'altra parte la propaganda dei suoi sostenitori contro gli allevamenti non ha basi scientifiche.
La recente approvazione da parte del Parlamento di una legge che vieta la produzione e la distribuzione in Italia della cosiddetta “carne coltivata” è stata oggetto di scontro politico e mediatico. Può sembrare strano, dal momento che questa tecnologia (produrre proteine animali per l’alimentazione umana attraverso le colture cellulari) non è ancora arrivata ad un grado di sviluppo tale da consentire una produzione su larga scala, con costi accettabili per il consumatore finale. Se lo strumento del divieto assoluto può sembrare sovradimensionato, l’enfasi di alcune critiche verso il provvedimento, che parlano di atteggiamenti anti scientifici e anti-italiani, assegnando a questa tecnologia un ruolo irrinunciabile nella salvaguardia dell’ambiente e nella sicurezza alimentare, sembrano sopra le righe. Può essere utile proporre qualche riflessione pacata su questa nuova “frontiera” aperta dal progresso tecnologico.
La prima osservazione da fare è che il potenziale sviluppo di questa tecnologia muove importanti interessi economici. Si fa iravedere la possibilità di svincolare la produzione alimentare dall’agricoltura. Quest’ultima, nelle sue forme moderne e in quelle tradizionali, fornisce ancora oggi la gran parte delle materie prime, ma impone alla produzione alimentare vincoli nelle economie di scala a causa della natura biologica dei processi produttivi agricoli e del loro stretto legame con la terra. Svincolare la produzione di un alimento fondamentale come la carne dal ciclo di produzione agricola, rendendolo in prospettiva un processo completamente industriale, non può non interessare potenziali grandi investitori sul mercato globale. Non sorprende perciò che sulla stessa praticabilità tecnologica della produzione di carne sintetica si assista ad una guerra di cifre. Analisi recenti parlano di un costo di produzione intorno ai 10mila euro al kg, anche se sono stati messi in commercio da parte di start-up, dove consentito (per ora solo Singapore e Usa), prodotti a prezzi abbordabili per i quali però è difficile capire se provengano da catene di produzione in grado di sostenersi finanziariamente oppure se si tratti di prodotti lanciati a prezzi non remunerativi, per attrarre ulteriori finanziatori. Non a caso vengono diffusi report che sostengono la possibilità di passare in tempi ragionevoli dalla sperimentazione alla produzione per il mercato. In genere invocando il sostegno pubblico ai progetti di ricerca e sviluppo. Esiste tuttavia ancora un dibattito sull’orizzonte temporale di queste innovazioni e sull’opportunità di dirottare sul loro sviluppo finanziamenti pubblici ingenti.
Le ovvie motivazioni economiche che possono spiegare l’interesse a sviluppare questo prodotto sono tuttavia messe in secondo piano rispetto ad una serie di altre motivazioni che appaiono più “nobili” del puro e semplice profitto. Un primo argomento, forse più di nicchia, ma che ricorre in tutte le presentazioni “positive” della carne sintetica, invoca la possibilità di evitare il sacrificio di animali per la nutrizione umana. Ma la gran parte dei vantaggi che vengono sottolineati riguardano la salvaguardia dell’ambiente. Più che argomenti a favore della carne «coltivata» si tratta di argomenti contro la carne allevata. Si presenta la riduzione e, in prospettiva, la fine della zootecnia per la produzione di carne, come vantaggiosa perché eliminerebbe tutti i suoi numerosi impatti negativi. Si forniscono stime su quanta acqua è necessaria per produrre un chilo di carne e che si potrebbe risparmiare; quanti ettari di terra devono essere occupati dalle colture foraggere; quante emissioni di gas serra vengono prodotti dagli animali da allevamento. Ed in maniera un po’ semplicistica si indicano percentuali di riduzione di questi impatti vicine al 100%.
Spesso i numeri forniti semplificano troppo. Anche se esistono allevamenti intensivi «senza terra», la gran parte delle attività zootecniche è integrata in aziende di produzione che realizzano sia la coltivazione che l’allevamento. Si usano anche mangimi acquistati sul mercato, ma la gran parte di queste aziende impiega per la nutrizione degli animali i prodotti delle proprie coltivazioni. In forme tradizionali di allevamento, la «chiusura» aziendale del ciclo dei nutrienti trovava nella fertilizzazione con le deiezioni animali una importante fonte di conservazione della fertilità del suolo. La moderna zootecnia non trascura questi aspetti, sperimentando forme di integrazione su scale diverse e riconoscendo nella integrazione tra coltivazione e allevamento una forma fondamentale di economia circolare. E per quanto riguarda la cosiddetta «impronta idrica» degli allevamenti, le decine di migliaia di litri di acqua che sarebbero necessari per produrre un chilo di carne, si dimentica troppo spesso di dire che si tratta in gran parte di acqua «verde»: l’umidità presente nel suolo che solo le colture possono utilizzare a fini produttivi. La zootecnia impiega acqua che altrimenti non verrebbe impiegata altrimenti. Si potrebbe discutere anche sulle emissioni di gas climalteranti, connessi con la fisiologia dei ruminanti. La zootecnia è spesso rappresentata come una attività fortemente indiziata di contribuire alla controversa componente antropica del cambiamento climatico. Il punto però è che la zootecnia «emette» soprattutto metano, un gas che ha sì un effetto serra maggiore della CO2, ma che, a differenza di quella, si degrada naturalmente in atmosfera in tempi brevi (12 anni), non generando effetti cumulativi. Senza parlare della ricerca sull’alimentazione animale, che ha dimostrato la possibilità di diminuire significativamente le emissioni. La ricerca ha anche ottenuto significativi successi nella riduzione dell’uso di antibiotici nelle produzioni zootecniche, attraverso buone pratiche legate al benessere degli animali.
Se si guardano i singoli aspetti si potrebbe continuare a lungo presentando argomenti favore e a sfavore della zootecnia. Il principale limite di questo modo di procedere è che si considera la zootecnia come un settore produttivo a sé, un processo produttivo condotto in isolamento dal contesto in cui si realizza. Ma non si può separare la zootecnia dal resto dell’agricoltura per valutarne il ruolo ambientale e sociale. E l’agricoltura è un settore che accanto ai beni per il mercato, come i prodotti vegetali ed animali, produce una serie di beni non di mercato (non-commodity outputs) che hanno un valore sociale sempre più riconosciuto. La zootecnia è una componente fondamentale di questa produzione congiunta.
Innanzitutto l’agricoltura modella e mantiene gran parte del territorio. Nei territori marginali dove l’agricoltura è stata progressivamente abbandonata per mancanza di sostenibilità economica e per lo spopolamento, la stabilità idrogeologica è messa a rischio. Ma c’è anche un altro “servizio ecosistemico” prodotto dall’opera degli agricoltori: il paesaggio. Esistono paesaggi di grande valore (anche economico, se si pensa alla fruizione turistica) modellati nel tempo da forme di zootecnia estensiva, che molto spesso costituisce l’unico tipo di agricoltura in grado di mettere a frutto territori poveri di risorse. E questo rimanda ad un ulteriore prodotto “congiunto” della coltivazione e dell’allevamento: la possibilità di conservare una agro-biodiversità che si è formata nel tempo attraverso il reciproco adattamento tra attività umane e specie animali e vegetali. Certe razze bovine allevate con modalità semi-brade non producono solo carne ma aiutano a conservare l’ambiente in cui vivono. Infine è importante non dimenticare che l’allevamento per la produzione di alimenti umani porta con sè in tantissimi territori rurali un patrimonio culturale e sociale. Anche nelle sue forme moderne, in un paese come l’Italia, l’esercizio dell’agricoltura e dell’allevamento è parte di una identità culturale e costituisce la fonte di reddito di una comunità di persone, mantenendo un reticolo di imprenditorialità diffusa. E questo è ancora più vero nelle aree rurali dei paesi in via di sviluppo, spesso in bilico tra lo sviluppo di una agricoltura e di una zootecnia più capaci di usare con efficienza le risorse a disposizione, per integrarsi in modo equilibrato nei processi di sviluppo ,e trappole di povertà che spingono le persone ad emigrare verso la città.
Quando si immagina un mondo in cui la carne viene prodotta in stabilimenti industriali e magari i prodotti vegetali in forme di “agricoltura verticale” idroponica (come di fatto già avviene oggi per alcuni prodotti che compriamo al supermercato), dove la produzione alimentare attira grandi investimenti e, verosimilmente, sperimenta processi di concentrazione ben oltre quanto già osserviamo a livello globale, bisognerebbe anche immaginare cosa potrebbe sostituire l’agricoltura. La diffusione di una tecnologia ha sempre un impatto complesso: non solo ambientale, ma anche culturale e sociale. Sarebbe ingenuo pensare che l’abbandono della zootecnia genererebbe solo risparmi di risorse naturali. L’alternativa vera alla produzione biotecnologica di carne non è l’allevamento intensivo di animali, come molta narrazione corrente vorrebbe lasciar credere, ma il progressivo miglioramento di forme di zootecnia moderna integrate in una agricoltura consapevole di produrre beni comuni oltre che merci per il mercato.
Tornando al punto di partenza rimane da chiedersi se lo strumento legislativo recentemente adottato, il divieto della «coltivazione» della carne in Italia sia adeguato. Servirà davvero? Sarebbe illusorio pensare che basti un divieto per impedire ad una nuova tecnologia di diffondersi, se in futuro dimostrerà di avere costi ragionevoli e di non essere dannosa per la salute umana. L’allevamento di qualità, i prodotti alimentari tipici che ne derivano non sono però a rischio di essere spiazzati dalla carne «tecnologica»: con la carne i consumatori sanno già di acquistare molto altro. Ciò che in prospettiva serve davvero sono l’educazione alimentare (e in questo il ruolo della famiglia rimane fondamentale e dovrebbe essere rilanciato), una corretta informazione nutrizionale e sociale sui prodotti di origine animale, ricerca per migliorare la qualità degli allevamenti, la valorizzazione delle economie rurali viste non come una specie di museo verde da non toccare ma luoghi di vita e di produzione. Molto di questo già lo si fa, almeno in Italia, dove il cibo di buona qualità (prodotto anche dalla buona zootecnia) per fortuna non è ancora un fenomeno di nicchia. E dove la nicchia sarebbe probabilmente riservata alla carne coltivata, il giorno che arrivasse sugli scaffali dei negozi.