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APPUNTI PER I CARDINALI / 3

La carità non può mai contraddire i comandamenti di Dio

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Il nuovo pontefice avrà il compito di riprendere le fila dell’insegnamento morale della Chiesa facendo chiarezza sui tentativi di sovversione arrivati a teorizzare un presunto conflitto tra la carità e la legge divina, che invece va recuperata come fondamento di una vita moralmente buona.
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Ecclesia 28_04_2025
(AP Photo/Andrew Medichini) Associated Press/LaPresse

In vista del prossimo Conclave pubblichiamo una serie di articoli di approfondimento ispirati al documento firmato da Demos II  (un cardinale in anonimato) che fissava le priorità del prossimo Conclave per riparare alla confusione e alla crisi create dal pontificato di Francesco.

Quello di Francesco è stato salutato da molti, dentro e fuori la Chiesa, come il pontificato della misericordia. Ma a ben vedere, durante gli anni del pontificato appena tramontato abbiamo visto emergere ed imporsi una posizione che può essere ritenuta una vera e propria “eresia della carità”, ossia una corruzione sia della carità che della stessa misericordia. Quanto si è insinuato in alcuni documenti del Pontefice, come per esempio nell’esortazione Amoris Lætitia, è stato apertamente sostenuto da colui che il papa ha scelto a presiedere il Dicastero per la Dottrina della Fede, S. Em. il cardinale Víctor Manuel Fernández, e caratterizza ormai la linea prevalente del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia e la Pontificia Accademia per la Vita, presieduta da S. E. mons. Vincenzo Paglia.

Non v’è dubbio che la Rivelazione insegni il primato della carità (cf. Mt 22,34‑40; Mc 12,28‑34), principio unificante di tutta la morale cristiana. Ma questo primato dev’essere correttamente inteso. Richiamiamo, prima di tutto, la differenza tra carità e misericordia, spesso confuse. La carità è virtù teologale che unisce a Dio, «amato principalmente e al di sopra di tutto [...] come la causa della beatitudine, mentre il prossimo è amato come compartecipe insieme della sua beatitudine» (cf. Summa Theologiæ II-II, q. 26, a. 2). La misericordia è invece quella splendida virtù morale che porta ad avere compassione della miseria del nostro prossimo, e che dunque, in quanto virtù morale, dev’essere regolata dalla virtù della prudenza e subordinata all’obbedienza a Dio, regina delle virtù morali (cf. Summa Theologiæ II-II, q. 104, a. 3). Ne consegue che mai la misericordia può portare alla disobbedienza ai comandamenti divini, né la carità, che è principalmente unione a Dio, può esigere atti in conflitto con i comandamenti, affermazione che comporterebbe una palese contraddizione della Rivelazione: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti […]. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama» (Gv 14, 15. 21).

Questo presunto conflitto tra la carità (e la misericordia) e la legge divina è stato invece teorizzato dall’ultimo prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, precisamente a causa di una errata riduzione della carità all’amore fraterno e per il grave fraintendimento della misericordia. L’affermazione che la carità possa giustificare atti contro i comandamenti di Dio, come per esempio la contraccezione, è un mostruoso fraintendimento che mina alla base l’insegnamento morale cattolico. La carità è infatti la forma soprannaturale di ogni virtù, che conduce fino al trono di Dio ogni atto umano buono; essa dunque presume la bontà dell’atto che eleva, ma non trasforma un atto disordinato in uno ordinato. Che durante questo pontificato molti eminenti prelati, nominati da Francesco in posti chiave per la guida della Chiesa, siano giunti al punto di affermare che la carità possa giustificare la contraccezione, o il ricorso alla FIVET, o ancora le relazioni more uxorio, è segno inequivocabile dell’abisso di tenebra nella quale ormai molti pastori della Chiesa sono caduti.

Il nuovo pontefice avrà il compito di riprendere le fila dell’insegnamento morale della Chiesa, meravigliosamente arricchito durante il pontificato di Giovanni Paolo II, facendo chiarezza su questi tentativi di sovversione e recuperando il senso dei comandamenti divini come fondamento di una vita moralmente buona, che cresce nella virtù e fiorisce nella carità. Di fonte ad un’impostazione morale il cui orientamento di fondo si è (gesuiticamente?) arenato nella ricerca di ciò che diminuisce o elimina la responsabilità morale di chi compie atti oggettivamente disordinati, sarà necessario reagire con la proposta di una vita integralmente buona, resa possibile dalla grazia divina e dalla buona volontà dell’uomo. La vita nuova che Cristo è venuto a portare, comunicata e sostenuta dalla vita sacramentale e dalla preghiera, è potenza che viene dall’alto, non misero compromesso dell’umana fragilità «ad excusandas excusationes in peccatis» (Sal 140, 4, Vulgata). Rimane sempre attuale e descrittiva del nuovo paradigma morale, l’ironica ed icastica espressione con cui Blaise Pascal, nella sesta delle sue Lettere Provinciali, stigmatizzò la nuova morale predicata da alcuni ambienti gesuiti: «iam non peccant, licet ante peccaverint» (non si pecca più, mentre prima si peccava).

Un altro filo da riprendere con urgenza è senza dubbio il rapporto tra ortodossia e ortoprassi, tema che non riguarda evidentemente il solo ambito della vita morale cristiana; filo interrotto da una tale divaricazione tra l’una e l’altra, da rendere la prima oggetto di mera (e facoltativa) erudizione, incapace di illuminare e di dare forma alla seconda. In questo quadro, a livello della sfera morale, la prassi si è trasformata in una sistematica ricerca delle eccezioni alla dottrina, la quale funge ormai da irraggiungibile sfondo valoriale per pochi fortunati.

La dottrina non è più dunque considerata come la struttura architettonica sulla cui solidità e stabilità si sviluppa la vita, ma un insieme di paletti flessibili, il cui senso è quello di dover essere evitati con agilità. Muovendo dal fatto che la legge morale, a causa della sua universalità, non è in grado di comprendere i particolari dell’atto concreto che è sempre circostanziato (da cui la necessità non solo della prudenza, ma della virtù in generale, che riconosce e compie il bene per modo di inclinazione), si deduce erroneamente che l’atto morale, per poter corrispondere alle più variegate e differenti circostanze, possa e persino debba oltrepassare la “durezza” della legge morale, di fatto contraddicendola. Anche il ricorso al termine “discernimento” e la patologica ipertrofia della coscienza hanno finito per erodere il senso della legge naturale e vanificare l’esistenza degli assoluti morali.

Si tratta di problemi enormi, che hanno ricadute pratiche drammatiche sulla vita e il destino eterno di milioni di fedeli; la «vita in abbondanza» che il Signore è venuto a portare (cf. Gv 10, 10) sembra di fatto essersi mutata in un rigagnolo di acque insalubri, salutate però, erroneamente e in modo fuorviante, come il “bene possibile” che l’uomo potrebbe concretamente offrire a Dio. Il vero “cambio di paradigma” può essere così sintetizzato: il male è bene e il bene male.

3. continua



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