La "buona politica" per la famiglia
La crisi strutturale che stiamo vivendo da sei anni è dovuta a un'economia mal impostata su delocalizzazione, deficit e debito. Ma prima di tutto dall'inverno demografico e dalla crisi della famiglia, causa di tutti gli altri problemi.
Si apre a Roma sabato 22 marzo alla Sala San Pio X (Via della Conciliazione 5, ore 10,30) il convegno «La buona politica. I cattolici, la famiglia e il futuro dell'Italia» promosso da Alleanza Cattolica. Pubblichiamo ampi stralci della relazione di apertura di Massimo Introvigne
Si chiamava Eduardo De Falco (1975-2014), ma per gli amici era «Speedy Pizza». Aveva ideato un sistema per sfornare pizzette molto rapidamente nella sua panetteria di Casalnuovo di Napoli (Napoli). Si è suicidato, inalando i gas di scarico della sua auto, il 19 febbraio 2014. Lascia una moglie e tre figli: una ragazza di quattordici anni e due fratelli gemelli di cinque. Già prostrato dalle tasse, rischiava la chiusura del negozio. L’Ispettorato del Lavoro aveva trovato la moglie – che sembra andasse nella panetteria solo occasionalmente – intenta ad aiutarlo con le pizzette. Poiché la donna non aveva un contratto di lavoro, aveva comminato a «Speedy Pizza» una multa di duemila euro, e ora minacciava di chiudere l’esercizio. Uno squilibrato vittima della depressione? Sembra di no. «Conoscevo Eduardo De Falco – dice il vicepresidente di Confcommercio Napoli, Gaetano Coppola, anche lui residente a Casalnuovo – era un gran lavoratore e faceva un prodotto ottimo. Era un uomo molto equilibrato. Se ha deciso di togliersi la vita è perché non reggeva più alle difficoltà economiche e la multa è stato l’ultimo colpo. La sua morte si aggiunge a quella di altre decine di commercianti che si sono suicidati per l’impossibilità di dialogare con il fisco, con gli enti locali, e con gli uffici che recapitano multe e cartelle esattoriale che richiederebbero almeno una rateizzazione, che spesso è impossibile chiedere».
In Italia, un Paese dove tradizionalmente per fortuna i suicidi sono meno numerosi che altrove, c’è un suicidio economico ogni due giorni e mezzo. L’aumento nel 2013 è del 75% sul 2012. Il 45,6% di questi suicidi è opera di imprenditori. Inoltre, nel 2013 rispetto al 2012 sono aumentati del 90% i tentati suicidi per motivi economici. Se però non si tratta di persone squilibrate e depresse – era questo, secondo il vicepresidente della Confcommercio di Napoli, il caso del povero «Speedy Pizza» –, c’è qualcosa che dev’essere spiegato. La povertà di per sé non spinge necessariamente a suicidarsi, anzi i Paesi del Terzo Mondo hanno tassi di suicidio molto più bassi dell’Europa.
Dal 15 novembre 2013 al 9 marzo 2014 molti hanno potuto ammirare a Milano, al Museo del Novecento, la mostra dedicata alla genesi de «Il Quarto Stato» (1901) di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907), un quadro che è diventato un’icona della protesta sociale italiana. Raffigura contadini e operai che avanzano, in lotta per i loro diritti. Quel Quarto Stato, nella sostanza il mondo del lavoro dipendente, grazie ai cattolici ben più che ai socialisti ha raggiunto nel XX e XXI secolo una condizione che non è certo ottimale, ma che regge meglio alla crisi rispetto a due altri gruppi. Si tratta di quelli che il sociologo Aldo Bonomi chiama il popolo della «vita nuda» e il popolo della «nuda vita».
Il popolo della vita nuda è quello che rovista nei cassonetti, che conosce la povertà del corpo. Gli manca la casa, e qualche volta gli manca anche da mangiare. Oggi non è costituito solo da immigrati e barboni, ma anche da ex-piccolo borghesi rovinati dalla crisi e dalle tasse. Il popolo della nuda vita è invece quello che altri sociologi prima di Bonomi avevano chiamato il Quinto Stato: giovani dotati di conoscenze e know-how, figli della società dell’informatica e delle nuove professioni, ma ora disoccupati o – se sono lavoratori autonomi – proletarizzati inflessibilmente dalla pressione fiscale e contributiva, a tutto vantaggio di pochi super-ricchi.
A poco a poco il Quinto Stato, la nuda vita, va a confluire nella vita nuda: il futuro è il cassonetto e, per chi rifiuta il cassonetto, il suicidio. In Italia mille imprese falliscono ogni giorno, centomila posti di lavoro si perdono ogni mese. Confcommercio stima quattro milioni di poveri, altri pensano che siano il doppio – e parliamo di cittadini italiani, stranieri esclusi. Secondo l’ISTAT il tasso di disoccupazione italiano agli inizi del 2014 è del 12,9%, aumentato di 1,4 punti rispetto al 2012, ma il tasso di disoccupazione giovanile, che è del 42,4%, è uno dei più alti del mondo.
Quali sono le cause? Gli economisti, tra cui Maurizio Milano che ha spiegato recentemente questi concetti su «La nuova Bussola quotidiana», parlano delle tre D: delocalizzazione - deficit - debito. La delocalizzazione sposta i posti di lavoro dove il lavoro costa meno. All’inizio funziona: nelle società occidentali si lavora di meno, e si consumano di più prodotti che costano meno. Ma, mentre la Cina e altri Paesi «nuovi ricchi» producono senza consumare – il che non è senza problemi, per loro e per noi –, Nord America ed Europa consumano senza produrre, e creano deficit. A partire dagli anni 1970 l’aumento dei consumi è finanziato dal deficit degli Stati occidentali, il quale diventa debito che incombe talora sulle famiglie e talora sugli Stati. In Italia il rapporto debito/PIL è salito a fine 2013 al 133%, e il suo «servizio» costa agli italiani 85 miliardi di euro all’anno – con un trend che viaggia verso i cento miliardi –, finanziati con un fisco da record mondiale e con una vessazione del contribuente che assume i caratteri di vera e propria persecuzione fiscale.
Al di là delle tre D – delocalizzazione, deficit e debito – emerge la quarta D, che è insieme alle loro radici e all’origine profonda della crisi: la demografia. L’economista cattolico Ettore Gotti Tedeschi è stato talora criticato per l’eccessiva insistenza sulle questioni demografiche: ma, anche da un punto di vista sociologico, la sua lettura della crisi appare convincente. Così la riassume: «Senza aumento delle nascite il Pil – di fatto e senza retorica accademica – nel mondo cresce solo se si fanno crescere i consumi individuali. Per creare una cultura di consumismo si devono installare nella cervice umana concetti di soddisfazione materialistica al posto di quelli di soddisfazione intellettuale e spirituale. […] Si comincia a “mangiar” risparmio per arrivare progressivamente alla magia dell’indebitamento progressivo. In un sistema poi di welfare maturo la non crescita reale del Pil produce la crescita reale dei costi fissi (sanità, pensioni, ecc.) che viene coperta da sempre maggiori imposte, che riducono il potere di acquisto e gli investimenti. Per sostenere detto potere di acquisto necessario ai consumi si delocalizzano le produzioni in Paesi a basso costo. Ma questo, senza strategie alternative, crea vulnerabilità di produzione e occupazione… In pratica crea la situazione cui siamo arrivati».
Se la demografia, e per altro verso la solitudine, stanno alle radici della crisi, allora la famiglia è la prima risposta alla crisi. Ma, come ha detto Papa Francesco aprendo il Concistoro sul tema, «la famiglia oggi è disprezzata, è maltrattata». Dire sì alla famiglia – il che implica dire no a chi disprezza e maltratta la famiglia – è dunque la conclusione e insieme l’inizio di tutto, l’ultimo, ma per importanza il primo, «comandamento» della dottrina sociale oggi.
Tutto questo c’entra molto con la grande mobilitazione di popolo che in Italia con i comitati Sì alla famiglia, le Sentinelle in piedi e altre iniziative sta portando nelle piazze e nelle sale ogni giorno, ogni sera decine di migliaia di persone, che difendono la famiglia e rifiutano il cammino che secondo qualcuno dalla legge contro l’omofobia dovrebbe portare inesorabilmente al «matrimonio» e alle adozioni omosessuali. C’entra molto con tutte le dimensioni della crisi, economia compresa. Se si diffondono più modelli alternativi di famiglia diminuisce il numero di famiglie. Se si diffondono più modelli alternativi di matrimonio, la confusione sociale sull’idea stessa del matrimonio fa diminuire i matrimoni. La propaganda LGBT cita in contrario uno studio del 2013 di Alexis Dinno e Chelsea Whitney, due ricercatori dell’Università di Portland secondo cui negli Stati degli Stati Uniti che hanno introdotto il «matrimonio omosessuale» i matrimoni tra un uomo e una donna non sono diminuiti. Il testo è stato pubblicato su «Plos One», che non è, come si vuole far credere in Italia, una rivista prestigiosa ma un giornale online che afferma di sfidare le convenzioni accademiche pubblicando quello che le riviste universitarie rifiutano e intanto funziona come un vanity journal, cioè si fa pagare dagli autori degli articoli. Comunque, se si legge bene lo studio di cui pure gli autori sono attivisti militanti in favore del «matrimonio» fra persone dello stesso sesso, si scopre che gli stessi ricercatori considerano il «matrimonio» omosessuale d’introduzione troppo recente perché le serie statistiche che hanno raccolto possano essere significative. Ovviamente, il danno non si produce nel minuto esatto in cui uno Stato introduce il «matrimonio» omosessuale per legge. I matrimoni diminuiscono a causa di un clima culturale di cui le leggi sono solo una delle componenti.
Meno matrimoni significa meno figli. Quando espongo questa tesi in pubbliche conferenze, trovo quasi sempre qualche cortese oppositore che si alza e, con un sorrisetto ironico, mi fa notare che una donna non sposata è altrettanto capace di fare figli di una donna sposata. Di norma ringrazio l’interlocutore per la straordinaria rivelazione – senza di lui, gli dico, non ci sarei mai arrivato – ma gli spiego anche che sto parlando d’altro. Non mi sto occupando di ginecologia, su cui non ho alcuna competenza, ma di sociologia.
Un ginecologo ci dirà che le donne non sposate hanno la stessa possibilità biologica di fecondità delle donne sposate. Ma il sociologo ci rivelerà che le donne non sposate hanno un tasso di fecondità più basso. Lo dicono i numeri, e non c’è ideologia che riesca a cambiarli. Anche qui, si obiettano studi secondo cui in Paesi dove sono aumentate le coabitazioni e diminuiti i matrimoni – tra cui la Svezia e la Norvegia – il tasso di natalità non è diminuito in modo significativo. Queste statistiche non ci dicono però nulla sul tasso di fertilità delle singole donne, sposate e non sposate, e cozzano contro gli studi molto dettagliati sugli Stati Uniti dello U.S. Census Bureau, da cui emerge con chiarezza come le donne sposate siano più feconde. Estraendo e componendo i dati dal censimento americano del 2008 emerge come la percentuale di donne senza neppure un figlio era del 77,2% fra le donne non sposate e del 18,8% fra le donne sposate. Il numero medio di figli per ogni gruppo di mille donne sposate era di 1.784, per ogni gruppo di mille donne non sposate di 439. Le nascite medie all’anno su mille donne sposate erano 83,6, su mille donne non sposate della stessa età 41,5. E il dato statistico non è poi così sorprendente. Fare un figlio non è un semplice fatto biologico. Senza prospettive di stabilità e sicurezza per allevarlo ed educarlo, è più difficile che una donna decida oggi d’intraprendere quest’avventura, ed eventualmente resista alle sirene dell’aborto.
I dati confermano dunque le parole del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, all’Assemblea Generale dei Vescovi italiani del 21 maggio 2013: «La famiglia non può essere umiliata e indebolita da rappresentazioni similari che in modo felpato costituiscono un vulnus progressivo alla sua specifica identità». Tali «rappresentazioni similari» indeboliscono e, come dice il cardinale Bagnasco, «umiliano» la famiglia, creando un clima dove ci saranno meno famiglie, meno matrimoni, meno figli, meno produttori, meno consumatori, dunque più debito, più deficit, più crisi, più impoverimento, più disperazione.
Vogliamo uscire dalla crisi? Lavoriamo per la famiglia. È il tempo della prudenza, del lavoro, della generosità. Ma è soprattutto il tempo della preghiera.