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FEDE E LETTERATURA

La bellezza, la croce e la gloria di Gesù Cristo

Bello nei miracoli e bello nei supplizi, bello sulla croce e nel sepolcro. Della bellezza di Cristo, splendore di giustizia e verità, scrivono Agostino e tanti poeti e filosofi, da Iacopone da Todi a Charles Peguy, da Giovanni Reale a Karol Wojtyla. Con parole che sfidano il "mondo".

Cultura 31_03_2013
Cristo risorto – Michelangelo

Si domanda sant’Agostino riguardo a Gesù Cristo: «Perché anche nella croce aveva bellezza? Perché la follia di Dio è più sapiente degli uomini; e la debolezza di Dio è più forte degli uomini (Corinzi 1,23-25) […] Bello è Dio, Verbo presso Dio; bello nel seno della Vergine, dove non perdette la divinità e assunse l’umanità; bello il Verbo nato fanciullo […]. È bello dunque in cielo, bello in terra; bello nel seno, bello nelle braccia dei genitori: bello nei miracoli, bello nei supplizi; bello nell’invitare alla vita e bello nel riprenderla, bello nel non curarsi della morte, bello nell’abbandonare la vita e nel riprenderla; bello sulla croce, bello nel sepolcro, bello nel cielo […]. Suprema e vera bellezza è la giustizia; non lo vedrai bello, se lo considererai ingiusto; se ovunque è giusto, ovunque è bello. Venga a noi per farsi contemplare dagli occhi dello spirito». 

Papa Giovanni Paolo II scrive sulle ragioni della bellezza di Cristo: «Gesù Cristo non soltanto rivela Dio, ma «svela pienamente l’uomo all’uomo». In Cristo Dio ha riconciliato a sé il mondo […]. È redento l’uomo, è redento il corpo umano, è redenta l’intera creazione, di cui San Paolo ha scritto che «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio» (Romani 8, 19)». Cristo è rappresentato da san Giovanni nell’Apocalisse mentre dice di sé: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».
In mezzo a tanti falsi profeti che allettano con l’attrattiva di nuovi messaggi e scoperte, Cristo si propone come l’unica vera novità che il mondo abbia conosciuto. Tutte le altre ipotesi, ad un attento esame, sono, in realtà, recuperi dell’antico paganesimo, che assumono nomi nuovi e vesti allettanti e ingannatrici, da cui san Paolo con acume ci mette in guardia: «Perché verrà un tempo in cui non sopporteranno più la sana dottrina; ma per prurito di udire, si ammucchieranno dei maestri secondo le loro passioni, e si distoglieranno dall’ascolto della verità per rivolgersi piuttosto alle favole».

Nel Duecento, nella stupenda lauda Amor de caritate, Iacopone da Todi ci illumina sulla bellezza del Cristo: «En Cristo nata nova creatura,/ spogliato lo vecchio om, fatto novello!/ Ma en tanto l'amor monta con ardura,/ lo cor par che sse fenda con coltello;/ mente con senno tolle tal calura,/ Cristo si me trae tutto, tanto è bello!». Tanto è l’ardore che il poeta sente per Cristo, come un innamorato di fronte alla propria amata, che arriva a scrivere: «Abràcciome con ello e per amor sì clamo:/ «Amor, cui tanto bramo, fan’me morir d'amore!»». Bellissimo è quest’ultimo verso in cui l’amore, divenuto «dono commosso di sé», desidera consumarsi tutto per amore. È una confessione imperitura, eterna: «Per te, Amor consumome languendo/ e vo stridenno per te abracciare;/ quando te parti, sì mogo vivendo,/ sospiro e plango per te retrovare;/ te retornando, ’l cor se va stendendo,/ ch’en te se pòzza tutto trasformare;/ donqua, plu non tardare, Amor, or me sovene,/ legato sì mme tene, consumese lo core!».
La lauda ci offre momenti in cui la drammaticità e il pathos raggiungono vertici tali da essere con fatica tollerati dall’umano sguardo. Il merito di questi testi è, senza dubbio, quello di averci presentato Cristo anche come vero uomo, che ha sofferto pienamente l’ignominia dell’ingratitudine umana e il dolore della croce. Il mondo accetta più volentieri l’idea di un Dio lontano, o di un Dio che sia diventato presenza in mezzo a noi senza, però, aver sofferto pienamente. Un Dio disincarnato ci rende molto meno responsabili per la croce che noi gli abbiamo fatto soffrire e per gli atteggiamenti che oggi assumiamo, meno responsabili di fronte alla croce che noi dovremmo portare e offrire sull’esempio di Gesù.

Iacopone da Todi rappresenta con una potente forza umana la passione di Cristo in Donna de Paradiso. L’umanità di Gesù rifulge, qui, ancor più nella sofferenza della madre che assiste con indicibile dolore al suo calvario e che con strazio esclama: «Figlio, l’alma t’è ’scita,/ figlio de la smarrita,/ figlio de la sparita,/ figlio attossecato!// Figlio bianco e vermiglio,/ figlio senza simiglio,/ figlio, e a cui m’apiglio?/ Figlio, pur m’ài lassato!// […] Figlio dolc’e e placente,/ figlio de la dolente,/ figlio, àte la gente/ mala mente trattato.// Ioanni, figlio novello,/ morto s’è ‘l tuo fratello./ Ora sento ‘l coltello/ che fo profitizzato.// Che moga figlio e mate/ D’una morte afferrate,/ trovarse abraccecate/ mat’e e figlio impiccato».

Il male e la morte (il limite dell’umana esistenza) sono stati sconfitti, come recita una famosa sequenza medioevale: «Alla vittima pasquale s'innalzi il sacrificio di lode, l'agnello ha redento le pecore, Cristo innocente ha riconciliato i peccatori col Padre. La morte e la vita si sono affrontate in un prodigioso duello: il Signore della vita era morto, ora, vivo, regna. Dicci, o Maria, cosa vedesti sulla via? Ho visto il sepolcro del Cristo vivente e la gloria di colui che è risorto; gli angeli testimoni, il sudario e le vesti; Cristo mia speranza è risorto e precede i suoi in Galilea. Siamo sicuri che Cristo è veramente risorto da morte. Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi. Amen. Alleluia».

Il filosofo Giovanni Reale (1931) scrive: «Per salvare gli uomini e per insegnare loro il vero amore, Dio si è «abbassato» fino a loro, e proprio in questo «abbassamento» ha offerto l'agape, l'amore assoluto, che anziché «acquisitivo» al più alto grado è «donativo» al più alto grado, in quanto instaura un rapporto inversamente proporzionale fra chi ama e la cosa amata rispetto al pensiero platonico. Allora, se l'amore assoluto coincide con l'abbassamento assoluto: Dio si è abbassato in Cristo al punto che anche il più misero degli uomini può essere certo di essere amato da lui. E questa è la Bellezza nel fulgore massimo che sola può salvare in senso totale».
Cristo inizia la sua missione a trent’anni, dopo aver vissuto come figlio, falegname, ebreo: amato fino a quel momento, quello della missione, ma poi odiato dal momento in cui testimonia la verità, Lui che è la verità.

Bene l’ha espresso Charles Peguy ne Il mistero della carità di Giovanna d’Arco: «Era generalmente amato./Tutti gli volevano bene./Fino al giorno in cui aveva iniziato la sua missione./I colleghi carpentieri, gli amici, i compagni, le autorità/ I cittadini,/ Il padre e la madre/ Trovavano tutto ciò molto positivo./ Fino al giorno in cui aveva iniziato la sua missione./ […] Fino al giorno in cui lui si era disturbato./ E disturbandosi aveva disturbato il mondo./ Fino al giorno in cui si rivelò/ L’unico Governo del mondo./ E in cui lui si rivelò a tutti./ In cui gli eguali videro bene./ Che non aveva nessun eguale./ Allora il mondo iniziò a trovare che lui era troppo grande./ E a fargli dei problemi».

Il Maestro stesso manda i discepoli a due a due perché in tutto il mondo ammaestrino e portino la buona novella. Da allora in poi i testimoni e i martiri del Vangelo andranno ovunque, sfidando fatiche, ostilità e persecuzioni perché il nome di Cristo sia noto in tutto il mondo. Gesù stesso predice che la predicazione nel suo nome sarà accompagnata da tribolazioni e persecuzioni. Il "mondo", infatti, non accetta Cristo e quelli che sono suoi. Quando la persecuzione non è fisica e materiale, come accade in molti paesi, è, però, più subdola o irrisoria, come in molte nazioni d’Europa. Nella cultura dominante l’affermazione ormai conclamata di una presunta élite intellettuale, organica al sistema del potere, apertamente o in maniera più sotterranea e in piccole dosi, ha portato alla diffusione di una mentalità scristianizzata.