La beatitudine – Il testo del video
Dio ha impresso nella natura dell’uomo un fine ultimo, senza cui non può esserci felicità. Ma il muoversi verso questo fine dipende dalla libertà dell’uomo, che può ingannarsi o no. L’essenza della beatitudine, in rapporto a intelletto e volontà.
Stiamo commentando la creazione delle cose visibili e in particolare e la creazione dell’uomo. Abbiamo dedicato alcuni incontri per “stabilire” il posto dell’uomo all’interno della creazione di Dio, quindi tra gli esseri invisibili e della creazione visibile inferiore all’uomo.
La scorsa volta abbiamo fatto una riflessione su questa caratterizzazione della differenza sessuale maschio e femmina. E oggi proseguiamo, cercando di penetrare il senso di quel creato a immagine e somiglianza di Dio, che san Tommaso commenta in un modo a mio avviso splendido.
Mi rifaccio dunque di nuovo alla Somma Teologica. Siamo nella I-II, cioè nella prima parte della seconda parte. E in questa sezione san Tommaso dedica un piccolo trattato (sono cinque questioni), piccolo ma densissimo, a un tema particolare, importantissimo, che è quello della beatitudine.
Per Tommaso, il fatto che l'uomo sia creato a immagine e somiglianza di Dio significa in sostanza che è, secondo un'espressione classica, capax Dei, capace di Dio. Avremo modo di declinare bene il senso di questa espressione, ma intanto la imprimiamo nella memoria, perché è l'espressione che straordinariamente rende l'altezza della vocazione a cui l'uomo è chiamato. Ora, il punto da capire è proprio questo, cioè che questa immagine e somiglianza con cui l'uomo è stato creato fa sì che l'uomo sia chiamato, tenda al proprio fine, a qualcosa che sia in grado di appagare questa sua natura fatta a immagine e somiglianza di Dio. Questa è la traiettoria che cercheremo di seguire in questa Ora di dottrina e sicuramente anche nella prossima.
San Tommaso affronta questo tema, partendo da lontano. È un tema fondamentale, perché il grande rischio che corriamo sia nell'ambito della filosofia e della teologia morale, ma anche poi nell'ambito della dogmatica, è quello di non tenere più conto, neanche sullo sfondo, che la beatitudine e non altro è la chiamata dell'uomo, è il senso della vita dell’uomo, è lo “standard” al quale l'uomo è chiamato, senza il quale non può essere felice perché non raggiunge ciò a cui è chiamato, ciò che Dio ha posto nella sua natura di uomo. Avremo modo di specificare bene anche il senso di natura. Comunque vedremo una cosa alla volta.
Dunque, san Tommaso parte da lontano. Parte da lontano per mettere bene i fondamenti su cui poi costruire l'argomentazione su questo tema così importante. E nella prima questione – sviluppata in otto articoli, che vi riassumo – san Tommaso parte da questo dato importante: tutto ciò che agisce, agisce per un fine. Tutto. In questo tutto c'è tutto, qualsiasi realtà creata. Chi agisce, agisce per un fine, ma con una distinzione: mentre le creature libere, nel caso dell'uomo le creature razionali, fanno questo muovendo sé stesse, le creature non razionali lo fanno perché sono, potremmo dire, mosse da un altro verso un fine.
La cosa è evidente quando pensiamo a una realtà che non ha una volontà, non ha un movimento proprio. Pensiamo ad una biro, che chiaramente riceve il fine da chi? Da chi la pone in atto; cioè io la utilizzo col fine di scrivere oppure col fine di lanciarla a qualcuno di importuno... Dunque, tutto ciò che agisce, agisce per un fine. L'animale, anche lui, agisce per un fine perché mosso da altro. Chi ha impresso, per esempio, all'uccellino di muoversi verso il verme o verso l'insetto per cibarsene? Non è lui che in qualche modo ha posto in sé questo fine: Dio ha posto in lui questo fine.
Nel caso dell'uomo, la nostra natura ha un fine, che dovremmo adesso esplorare e che non ci siamo dati. Tuttavia, muoverci verso questo fine è in nostro potere: questa è la grande differenza. Quella natura particolare razionale, che è l'uomo, ha questa caratteristica. Certamente ha un fine che non è lui a darsi, ma il muoversi verso questo fine dipende da lui, è lui che muove sé stesso.
Ora, ogni azione umana è contraddistinta dall'agire per un fine che è conosciuto e voluto. E gli esempi si possono sprecare. Io prendo l'automobile per andare al lavoro. Dunque il fine specifica il mio atto. Ma vado al lavoro perché? Perché ho bisogno di guadagnarmi lo stipendio. Ma perché ho bisogno di guadagnare lo stipendio? Per poter vivere, mantenere me e la mia famiglia. Ma perché devo mantenere me e la mia famiglia? E così via. Come vedete, ogni azione ha un fine, che possiamo chiamare intermedio, il quale poi è ordinato a un altro fine, il quale poi è ordinato a un altro fine e così via. C'è una catena, potremmo chiamarla, di finalità. Molti dunque sono i fini di una o più azioni, evidentemente.
Ma è necessario, dice san Tommaso, ammettere un fine ultimo, che metta “in moto” questi fini intermedi e che è il fine ultimo dei fini intermedi. In sostanza, quel fine per il quale, in vista del quale, noi raggiungiamo questi fini intermedi; è l'esempio che vi ho fatto prima. Solo che appunto, in questa catena, non si può andare all'infinito. Ci deve essere un fine ultimo che rende ragione di questi fini intermedi e in qualche modo li mette in atto. Ora, questo fine ultimo è quel fine che io voglio per sé stesso, perché gli altri fini li voglio in vista di un altro fine. Prendere la macchina lo voglio in vista di andare al lavoro, andare al lavoro lo voglio in vista di guadagnarmi da vivere: lo voglio in vista di... Ma c'è un fine ultimo che rende ragione di tutti questi fini che è voluto per sé stesso, che cioè non rimanda a un altro fine.
Ora, questo fine che caratteristica deve avere? Per san Tommaso è chiarissimo. È una questione di ragionamento (non è ancora una questione in cui entra propriamente la fede) e cioè deve essere qualcosa che appaga l'intenzione, perché se non la appagasse io vorrei quel fine in vista di un altro fine. Cioè, il fine ultimo deve avere questa caratteristica: deve appagare pienamente, perché deve essere voluto per sé stesso, non per altro, altrimenti non sarebbe ultimo, ma a sua volta intermedio. Ora, questo fine ultimo chiaramente non può che essere uno. Se non fosse uno, ma fosse molteplice, significa che nessuno di loro sarebbe in grado di appagare pienamente l'intenzione umana.
Dunque, deve essere un bene totale. Cosa vuol dire? Un bene tale da appagare pienamente, da non lasciare altro verso cui tendere. Dev'essere naturale. Cosa vuol dire naturale? Deve appagare quella natura che lo cerca. Se fosse al di sotto non potrebbe essere fine ultimo, perché quella natura cercherebbe altro. Se fosse al di là di questa natura, non conforme a questa natura, non verrebbe intenzionato. Nessuno tende a ciò che non rientra nel proprio “radar”. L'ampiezza del radar è in questo caso la natura, la natura umana. Dunque, deve avere questa caratteristica di essere naturale in questo senso: capace di appagare quella natura che lo cerca, quella natura che tende a, è inclinata a.
Terzo: il fine ultimo deve essere specificante, cioè specificante la volontà. Che cosa vuol dire? Vuol dire che in sostanza è ciò che unisce tutti gli altri atti. Tutti gli atti che la volontà pone in essere, che l'uomo pone in essere, vengono in qualche modo specificati da questo fine ultimo tramite i fini parziali, intermedi, di cui abbiamo parlato prima. Allora capiamo che il fine ultimo, che deve esistere per la ragione detta prima, che deve essere unico per la ragione detta prima, deve avere queste caratteristiche, altrimenti non è un fine ultimo, è un fine parziale, un fine intermedio. Ora, è interessante che questo fine ultimo per sé stesso non può che avere queste caratteristiche. E, di conseguenza, questo fine ultimo è unico per tutti gli uomini. Per quale ragione? Perché tutti gli uomini hanno questa apertura della loro natura per cercare un fine che abbia queste caratteristiche; è il “marchio” della natura umana che è diverso da quello, per esempio, di un animale, di un ortaggio o di altro, che hanno invece il loro fine proprio.
L'articolo 7 della quæstio 1 ci dice una cosa importante: se è vero che questo fine ultimo è uguale per tutti, da cosa deriva che invece gli uomini cerchino svariate cose e ognuno ponga il suo fine in cose completamente diverse? Tommaso cerca di rispondere in questo articolo: «Stando dunque alla ragione di fine ultimo, tutti concordano nel desiderio del fine ultimo, poiché tutti desiderano il raggiungimento della propria perfezione, costitutivo della ragione di ultimo fine» (ST I-II, q.1, a.7). Cioè, in sostanza, prima di dire che il mio fine ultimo è questo, quello o quell'altro, Tizio, Caio e Sempronio, che pongono i loro fini in cose diverse, cercano tuttavia queste cose sotto la stessa ragione formale. Cioè, tutti cercano che cosa? In qualche modo il raggiungimento del perfezionamento di sé, cioè il godimento di qualcosa che appaghi la propria vita, il proprio essere. Questo orientamento è ciò che caratterizza la natura umana in quanto tale. E dunque, quando gli uomini cercano dei beni particolari, li cercano sotto questo aspetto di bene che possa appagare.
Ma san Tommaso precisa: «Non tutti invece concordano nell'ultimo fine, quando si tratta di stabilire l'oggetto in cui la suddetta ragione si trova» (ibidem). E qui abbiamo tutta una schiera di “ultimi fini”: c'è chi lo cerca nel potere, chi nella ricchezza, chi nell'onore, chi in una vita tranquilla, eccetera. Ma ognuno che cerca cose diverse, lo cerca – il fine ultimo – sotto questa ragione formale, che è quella che determina, che caratterizza la nostra natura. Ora, san Tommaso dice: «Allo stesso modo sarà necessariamente bene perfettissimo quello che è desiderato come fine ultimo da coloro che hanno gli affetti bene ordinati» (ibidem). Attenzione: la diversità nasce dal fatto che ognuno di noi dipende da una serie di fattori – comunitari, personali, educativi, caratteriali, vita, cultura, religione – che fa sì che questo bene che è ultimo, che esaurisce la ricerca dell'uomo, che lo porta a compimento, viene concretizzato in quello piuttosto che in quest'altro. San Tommaso dice: Qualis unusquisque est, talis finis videtur ei; a ciascuno, in base a com'è, il fine appare in un certo modo. Quindi, mentre c'è una determinazione della natura, c'è una indeterminazione quanto al fine concreto a cui noi diamo il nome di fine ultimo: quel fine che noi cerchiamo per sé stesso dipende da tanti fattori. E dunque vediamo l'importanza di questi fattori culturali, sociali, comunitari, personali, l'educazione, la cultura, l'istruzione.
San Tommaso specifica nella prima risposta alle obiezioni: «I peccatori si allontanano da quel bene in cui realmente si trova l'essenza dell'ultimo fine, ma non dalla ragione formale dell'ultimo fine che ricercano, ingannandosi, in altri oggetti» (ibidem). Cioè, la differenza tra il giusto e il peccatore non è – attenzione – nella ragione formale del fine ultimo. Sia il giusto che il peccatore cercano la stessa ragione formale del fine ultimo, ciò che appaga l'uomo, ciò che ha quelle caratteristiche di bene totale, di bene naturale, di bene specificante che abbiamo visto prima; ma si inganna il peccatore rispetto al giusto sul dove concretamente lo sta cercando. E così, nella risposta alla seconda obiezione, il motivo per cui esistono tra gli uomini vari sistemi di vita sta nella «diversità degli oggetti in cui si cerca la ragione di bene supremo» (ibidem). Ritorna questa idea, su cui san Tommaso insiste. L’uomo cerca l'essenza della beatitudine.
Ci si chiede: che cos'è la beatitudine? Qual è quell'elemento che caratterizza la beatitudine per l'uomo? Cercando appunto l'essenza della beatitudine, diciamo così, Tommaso tralascia quegli elementi che pure concorrono alla beatitudine, ma non ne costituiscono l'essenza. Nella quæstio 2, san Tommaso ha escluso tutte le cose che non possono essere oggetto di beatitudine. Nella quæstio 3, si domanda, in particolare nell'art. 2, se l’essenza della beatitudine possa essere qualcosa che riguarda la parte sensitiva dell'uomo. Evidentemente, san Tommaso dice no. Ma attenzione, che cosa vuol dire? La natura umana chiaramente ha una dimensione sensitiva, ma non si esaurisce in questa parte; se la beatitudine, se l'essenza della beatitudine fosse qualche cosa che riguarda la parte sensitiva, chiaramente rimarrebbe tutta una sfera dell'uomo che non sarebbe soddisfatta e quindi questo “qualcosa”, questa X, non sarebbe la beatitudine.
Però san Tommaso ha ben presente che l'uomo è uno e dunque dice molto apertamente che i sensi partecipano della beatitudine come, potremmo dire, una ridondanza. Nell'art. 3, dice apertamente che le operazioni dei sensi possono far parte della beatitudine come conseguenti. Cioè, la beatitudine dell'uomo include, si riverbera sulla parte sensitiva; evidentemente, dopo la morte, in quel miracolo straordinario riservato alla fine dei tempi, che riguarda la risurrezione dei corpi, dove appunto i corpi, i nostri corpi liberi dal vulnus della morte, da quella decadenza provocata dal peccato originale, si riuniranno a noi stessi per riformare l'uomo integrale e dunque la beatitudine chiaramente coinvolgerà la parte sensitiva, ridonderà sulla parte sensitiva.
Ma la domanda di Tommaso è un'altra: qual è l'essenza della beatitudine? La sua essenza va cercata in quelle che sono, diciamo, le dimensioni, le facoltà caratteristiche tipiche dell'uomo, che lo distinguono dagli altri esseri, e cioè l'intelletto e la volontà. Ora, qui abbiamo un tema importante, perché la risposta che dà san Tommaso ha spiazzato per molto tempo le aspettative. Aspettative che noi troviamo elencate nei “sembra che” dell'art. 3 (ricordiamo che ogni articolo di ogni quæstio della Summa si apre con alcuni elementi che lui ricava dal ragionamento, da filosofi, da altre autorità che sembrano dire il contrario di quello che lui vuole sostenere).
In sostanza, queste obiezioni si condensano in un'unica grande obiezione, cioè: l'essenza della beatitudine è un atto della volontà, non dell'intelletto. Per esempio, viene citato sant'Agostino: la beatitudine dell'uomo consiste nella pace, ma la pace rientra nell'ambito del volere. Oppure, la beatitudine è il bene supremo, ma il bene è oggetto della volontà, non dell'intelletto. Dunque l'essenza della beatitudine dev'essere un atto della volontà. O ancora, la volontà è la prima causa dell'operare, perché è la volontà che muove tutte le altre facoltà, tutte le altre potenze. Quindi la beatitudine deve appartenere alla volontà. O ancora, obiezione classica: l'amore di Dio è la carità, che è la più grande delle virtù; ma l'amore verso Dio, che è un atto della volontà, è più nobile della conoscenza, che è un atto dell'intelletto, quindi la beatitudine consiste in un atto della volontà.
Eppure san Tommaso dice: la beatitudine, l'essenza della beatitudine consiste in un atto dell'intelletto. Come mai arriva a una conclusione così diametralmente opposta a queste obiezioni che appaiono assolutamente ragionevoli? Il ragionamento che fa san Tommaso si fonda su questo: prima di tutto, perché non può essere un atto della volontà? Attenzione, san Tommaso non sta dicendo che la volontà non c'entra niente con la beatitudine dell'uomo: sta dicendo che l'essenza della beatitudine non può essere un atto della volontà.
Leggiamo l’art. 4 della quæstio 3: «Si è già detto che per la felicità si richiedono due cose: una che ne costituisce l'essenza, e un'altra che ne costituisce l'accidente proprio, cioè il godimento che la accompagna» (ST I-II, q. 3, a.4). C'è l'essenza della beatitudine e c'è il godimento che accompagna questa essenza, diciamo così, raggiunta. E adesso spiega perché l'atto della volontà non può essere l'essenza della beatitudine: «Infatti la volontà si volge al fine o per desiderarlo se è assente o per acquietarsi in esso, se è presente» (ibidem). È chiaro: la volontà si chiama anche appetito razionale, cioè tende a. Dunque, se questo bene non è presente, lo desidera; se è presente, si acquieta. Ora, è chiaro che il desiderio del fine non è il conseguimento del fine, ma piuttosto un moto verso il fine. Dunque se il bene non è presente, l'atto della volontà desidera questo fine; il che non vuol dire ancora conseguirlo, ma vuol dire mettersi in moto per conseguirlo.
«Il godimento poi sopravviene alla volontà per il fatto che il fine è presente. Ma non è vero il contrario, che una cosa diviene presente perché la volontà ne gode» (ibidem). Cioè, in sostanza la volontà o muove verso oppure gode di qualcosa che è presente. Ma come fa a essere presente? È questo il senso della domanda quale sia l'essenza della beatitudine. Come fa questo fine ultimo, questo bene sommo a essere presente? La volontà tende a, oppure, una volta che c'è, ne gode, ma manca la parte intermedia: chi lo coglie? E qui viene la seconda parte.
San Tommaso prima fa un esempio molto semplice. Il ladro che vuole un bene, finché lo vuole non lo raggiunge. Per avere il bene, ci vuole un altro atto, che è l'atto appunto di afferrare, prenderselo e portarselo a casa, che certamente è mosso dalla volontà, ma è un atto distinto dalla volontà. E quindi, una volta che ce l'ha, finalmente gode del bottino che ha preso. Ora, qual è questa “mano del ladro”, dal punto di vista della beatitudine? San Tommaso lo spiega: «Dapprima c'è la volontà di conseguirlo [questo fine ultimo; quindi la volontà è lì, è il motore, è lei che parte]. Poi ne abbiamo il conseguimento per il fatto che esso [il fine ultimo] diviene a noi presente mediante un atto dell'intelletto [cioè l'intelletto lo conosce, lo vede questo bene ultimo, che si palesa all'intelletto e lo riempie]. E finalmente la volontà appagata si acquieta nel fine già posseduto» (ibidem). Quindi una volta afferrato dall'intelletto che lo “vede”, la volontà si appaga, si placa, non deve più cercare altro perché il suo bene è reso presente.
Dunque, dice san Tommaso: «L'essenza della beatitudine consiste in un atto dell'intelletto. Alla volontà invece spetta il godimento che accompagna la beatitudine» (ibidem). Dunque, la facoltà che riesce ad afferrare, a portare dentro il fine ultimo, perché la volontà ne goda, è l'intelletto. Perché l'intelletto riesce a portar dentro? Perché il conoscere – attenzione, conoscere qui come visio – è proprio il portar dentro, non in modo fisico, ma in modo intenzionale, cioè secondo il modo dell'intelletto; è portare dentro questo bene conosciuto, che la volontà a questo punto afferra e ne gode. Non bisogna evidentemente esagerare questa distinzione; è una distinzione, non è una separazione tra la volontà e l'intelletto: l'uomo è uno.
Ma la volontà umana da che cosa si differenzia dagli altri appetiti delle creature non razionali? Proprio dal fatto che ha un'intelligenza. E questa intelligenza che caratteristica importantissima ha? Ha un'apertura universale e quindi permette alla volontà di non restare attaccata a un bene particolare. Cioè, l'apertura, l'occhio della volontà, che è l'intelligenza, questa sua apertura all'universale fa sì che la volontà, quando trova un bene “capisce” che è un bene parziale, che non corrisponde a questa apertura e dunque la volontà è libera, non è vincolata a qualcosa di particolare, perché quel qualcosa di particolare non è in grado di riempire pienamente questa apertura della volontà. Ma quando sopravviene invece qualcosa o qualcuno che è in grado di riempire questa estensione dell'intelletto, ecco che l'intelletto viene come assorbito e la volontà a quel punto non vuole cercare altro: l'intelletto gli mostra qualcosa che è conforme proprio alla natura dell'uomo, cioè riesce a riempire quella vastità, quell'apertura universale propria dell'intelligenza dell'uomo e dunque poi della volontà dell'uomo. È un testo densissimo, importante. Vedremo poi alcune ripercussioni nella prossima puntata.
Attenzione. San Tommaso fa una distinzione tra la beatitudine imperfetta e la beatitudine perfetta. La beatitudine perfetta è legata al nostro intelletto speculativo. Cosa vuol dire speculativo? Che vede, che contempla, sarà pienamente riempito e dunque non sarà una beatitudine che riguarda l'intelletto pratico. Cosa vuol dire intelletto pratico? L'intelletto che deve regolare le azioni e le passioni umane.
Ma, dice san Tommaso, quando invece parliamo della beatitudine imperfetta, che è la beatitudine che è possibile raggiungere già quaggiù, invece lì c'entra eccome l'intelletto pratico. «La felicità ultima e perfetta che ci attende nella vita futura consiste totalmente nella contemplazione. Invece la beatitudine imperfetta, che è possibile avere al presente, consiste innanzitutto e principalmente nella contemplazione; però in modo secondario consiste anche nelle operazioni dell'intelletto pratico che regola le azioni e le passioni umane» (ST I-II, q. 3., a. 5), proprio perché in questa vita è ancora necessario regolare le passioni che, se non sono regolate, prendono il sopravvento, e le azioni umane, secondo la prudenza. Quando questo mondo passerà, non sarà più necessario. Ed ecco che la beatitudine coinvolgerà pienamente l'intelletto speculativo, la visione.
Attenzione, san Tommaso corregge subito il tiro: non dice che la beatitudine consiste nelle scienze speculative, ma nella visio Dei. E infatti l'articolo principe della quæstio 3 è il numero 8, dove san Tommaso spiega che ad appagare questo desiderio dell'uomo verso il fine ultimo, dunque ad appagare l'intelletto speculativo dell'uomo, non sono delle scienze particolari, ma è la visione dell'essenza divina: «Ora, dal momento che l'intelletto umano, conoscendo la natura di un effetto creato, arriva a conoscere solo l'esistenza di Dio, la perfezione da esso conseguita non è tale da raggiungere veramente la causa prima, ma rimane ancora il desiderio naturale di indagarne la natura» (ST I-II, q. 3., a. 8). Cioè, la modalità di conoscere Dio che abbiamo in questa vita arriva a conoscere in qualche modo l'esistenza di Dio, ma rimane, dice Tommaso, ancora il desiderio di conoscere chi è realmente Dio, Lui stesso, non per via appunto di ragionamento o di deduzione. «Quindi [l'uomo] non è perfettamente felice. Per la felicità perfetta si richiede dunque che l'intelletto raggiunga l'essenza stessa della causa prima» (ibidem), cioè è necessario alla beatitudine dell'uomo che l'intelletto raggiunga l'essenza di Dio.
Ma non bisogna fraintendere questo passo. Infatti, nella risposta alla seconda obiezione, san Tommaso non sta dicendo che noi conosceremo Dio come Dio conosce Sé stesso, ma conosceremo Dio, la sua essenza, come noi possiamo conoscerla: «La beatitudine di Dio, il quale abbraccia e comprende perfettamente col suo intelletto la propria essenza, è superiore a quella dell'uomo o dell'angelo, i quali vedono quell'essenza senza averne la piena comprensione» (ibidem). Che cosa vuol dire? Come si fa a essere pienamente beati senza avere la piena comprensione? È una comprensione piena quanto a noi, quoad nos. Quanto a noi, essa riempie questa apertura dell'intelletto dell'uomo e dunque la volontà la raggiunge e si appaga. Ma non è piena quanto a sé stessa, cioè la nostra visione dell'essenza divina è pienamente appagante perché “riempie” noi, diciamo così, ma non “riempie” Dio. Cioè, per capirci, la conoscenza che Dio ha di Sé stesso e dunque la beatitudine di Dio nell’abbracciare perfettamente con il suo intelletto la propria essenza è infinitamente superiore rispetto a quella dell'uomo.
Dunque, dire che vediamo l'essenza di Dio non vuol dire che vediamo Dio così come Egli è, nel senso di come Lui è in grado di conoscere e vedere Sé stesso: rimane la differenza ontologica. E tuttavia quella visione che noi abbiamo deve essere per forza dell'essenza di Dio, perché se l'intelletto non coglie l'essenza non è appagato; ma coglie pur sempre quell'essenza proporzionata a sé, proporzionata alla propria natura, proporzionata all'estensione del proprio intelletto e del proprio desiderio.
La prossima volta andremo avanti a riflettere su questo tema della beatitudine, a cosa Dio ha chiamato l'uomo. E affronteremo una questione importante, che è quella del desiderio naturale di conoscere Dio.
Maschio e femmina li creò – Il testo del video
Nella Genesi è chiara la pari dignità tra uomo e donna. Nella differenziazione sessuale e nella chiamata dei due a divenire una sola carne si affaccia un’altra realtà, il grande mistero di Cristo e della Chiesa. Come leggere san Paolo.