Kyenge, se stava in Congo era molto peggio
Dopo i beceri insulti di cui è stata vittima, il ministro Kyenge ha espresso preoccupazione anche per la sicurezza delle figlie. Comprensibile, ma dovrebbe anche riflettere sulla fortuna di essere in Italia: le sue ex connazionali nella Repubblica Democratica del Congo, sono ripetutamente vittime di stupro, violenze e costrizioni.
Il ministro dell’integrazione Cecile Kyenge ha spiegato, nel corso di una intervista rilasciata il 28 luglio al quotidiano La Repubblica, di essere serena malgrado gli insulti di cui è stata fatta oggetto – ultimo, il lancio di alcune banane alla festa del Pd a Cervia, durante un dibattito – ma di essere adesso in pensiero per la sicurezza delle sue due figlie, Maisha (un bellissimo nome swahili, vuol dire ‘vita’) e Giulia. Si può ben capire la sua apprensione di madre, tanto più che ora l’incarico di ministro la tiene lontana da loro.
Madre di due figlie ora ventenni, si legge sulle biografie pubblicate dopo la sua nomina a ministro. Si legge anche che è nata nel Katanga, provincia sud orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC), nel 1964, vale a dire un anno dopo il fallimento del tentativo di secessione di quella regione, proclamata indipendente nel 1960 e devastata per i tre anni successivi da una sanguinosa guerra civile. La piccola Cecile è poi cresciuta mentre il suo paese così ricco di risorse naturali affondava nella miseria durante la trentennale dittatura di Sese Seko Mobutu.
Se n’era già andata quando, nel 1997, Laurent Désiré Kabila ha sfidato e vinto Mobutu con un esercito di bambini soldato e quando nel 2001 il nuovo leader è stato vittima di un attentato e il figlio Joseph gli è succeduto. Tra il 1996 e il 2004 la lotta per il potere, contro Mobutu prima e contro la “dinastia” Kabila poi, ha scatenato due cruente guerre. Si calcola che abbiano provocato non meno di sei milioni di morti tra i civili, uccisi durante i combattimenti e soprattutto morti di stenti, fame e malattie. Di famiglia benestante – suo padre era un funzionario statale – e pur non avendo forse patito di persona le conseguenze più atroci della guerra, il ministro Kyenge deve conservare ricordi terribili dei primi 20 anni della sua vita, fino alla partenza alla volta dell’Italia nel 1983, munita di una borsa di studio ottenuta grazie all’intervento di un vescovo cattolico.
Ancora adesso in RDC le emergenze umanitarie si susseguono, l’immenso est non conosce pace, si moltiplicano sfollati e profughi che cercano scampo agli abusi dei combattenti dei movimenti armati, dei militari governativi e persino dei caschi blu delle Nazioni Unite che li dovrebbero proteggere. Per donne e bambine, inoltre, si aggiunge la violenza degli stupri sistematicamente inflitti. La Nuova Bussola Quotidiana il 31 gennaio scorso ha pubblicato l’appello di padre Locati che in RDC assiste centinaia di donne violentate e ha denunciato l’ “olocausto al femminile”, “un vero disastro umanitario” che si compie nell’indifferenza delle autorità congolesi e della popolazione stessa. Molti conosceranno, e chissà quanti hanno aiutato, il medico italiano Chiara Castellani che a sua volta denuncia ormai da decenni lo stato di abbandono in cui versa la popolazione, in balia di una classe politica corrotta e irresponsabile: specializzata in ostetricia e ginecologia, Chiara dedica la vita ai pazienti dell’ospedale di Kimbau, dove è arrivata negli anni 90, unico medico per circa 100.000 abitanti.
L’Indice dello sviluppo umano, redatto ogni anno dall’Undp, l’agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo, nel 2013 assegna all’RDC l’ultimo posto su 186 stati considerati. Per capire meglio, ecco un confronto con l’Italia: in RDC la speranza di vita alla nascita è di 48,7 anni, in Italia è di 82 anni, il tasso di mortalità tra i bambini sotto i cinque anni è 170 su mille in RDC (in Katanga sale a 184) e 4 su mille in Italia, quello di mortalità materna (calcolato su 100.000 bambini nati vivi) è 540 in RDC e 4 in Italia, la scolarizzazione tra gli adulti è rispettivamente del 66,8% e 98,9%; per finire, in RDC il prodotto interno lordo procapite è di 319 dollari e l’87,7% della popolazione vive con meno di 1,25 dollari al giorno ovvero sotto la soglia di povertà (entrambi i valori calcolati a parità di potere d’acquisto), in Italia il PIL procapite è di 26.158 dollari e la percentuale di chi vive con meno di 1,25 dollari al giorno è inferiore a 1.
Chissà quante volte, allora, guardando le proprie figlie, il ministro Kyenge avrà ringraziato Dio per averle fatte nascere in Italia ed essere italiane, al sicuro, mille volte riconoscente a chi le ha consentito di lasciare il suo travagliato paese e scampare con le sue figlie alle sofferenze che affliggono i suoi ex connazionali: quelle causate da guerre, malgoverno, corruzione e tribalismo, ma anche quelle inflitte da istituzioni tuttora in vigore e sostanzialmente ammesse, concepite per negare libertà personali e diritti fondamentali soprattutto alle donne. La stessa poligamia che il ministro a quanto pare apprezza non avrà pesato su di lei figlia di un uomo ricco e potente, in grado di provvedere a tutti i suoi figli, ma difficilmente sarà stata vissuta in tutta serenità dalle mogli: sono ben note le preoccupazioni, le ansie e i problemi di carattere pratico che questa istituzione provoca nelle co-mogli, soprattutto se maritate come spesso succede quasi bambine. Si può solo immaginare il suo sollievo nel sapere che alle sue figlie sono risparmiati matrimoni imposti, prezzo della sposa, levirato, libere di disporre di se stesse e di decidere da sé come ancora poche donne africane possono fare: fortunata lei stessa che, per essere libera, non ha dovuto affrontare la lotta che tante donne africane devono combattere, raccontata in tutta la sua drammaticità da Ayan Hirsi Ali, tra le altre, e da Waris Dirie nelle loro splendide autobiografie.