Kosovo, 10 anni dopo il pogrom anti-cristiano
I serbi cristiani ortodossi del Kosovo ricordano con dolore il pogrom che hanno subito 10 anni fa, ad opera degli albanesi musulmani. Non fu l'ultimo, né il primo episodio di una violenza etnica e religiosa che non è affatto a senso unico.
Per i serbi rimasti nel Kosovo questo è un triste decimo anniversario. Tra il 17 e il 19 marzo 2004, hanno subito un pogrom di vaste dimensioni ad opera di militanti indipendentisti albanesi, musulmani. Si è trattato di un grave episodio di violenza religiosa, oltre che etnica. Un tipo di evento che, ormai, siamo purtroppo abituati a vedere in India o in Nigeria, ma non nel cuore dell’Europa. In soli due giorni, 28 serbi ortodossi sono stati assassinati, un altro migliaio ha dovuto abbandonare la propria casa distrutta. Le milizie ortodosse, rispondendo agli attacchi, avevano a loro volta provocato la morte di 11 albanesi. Il danno al patrimonio artistico, culturale e religioso alla comunità ortodossa è stato immenso: 35 chiese dissacrate, bruciate o completamente distrutte. Fra queste figurano, nella città di Prizren, anche la cattedrale di Nostra Signora di Ljevis, la chiesa della Santissima Salvazione, il monastero dei Santi Arcangeli (tutti costruiti nel XIV Secolo), la chiesa di San Giorgio Runovic (XV Secolo), che facevano parte del patrimonio sopravvissuto alla lunga occupazione turca, iniziata nel 1389 e finita appena due secoli fa.
Secondo il patriarca serbo ortodosso Irinej, queste violenze non sono affatto un caso unico. «Fra il 1999 e il 2004, 135 chiese e monasteri sono stati bruciati, distrutti e devastati. Gran parte di essi erano un patrimonio artistico e storico protetto». Il Patriarca ricorda anche che i cimiteri dei serbi vengono sistematicamente dissacrati, mentre quelli albanesi presenti nelle regioni a maggioranza serba vengono rispettati. Il Kosovo, che il Patriarca definisce come la “Gerusalemme dei serbi”, la regione in cui, storicamente, tentarono invano di arginare l’avanzata dei turchi (battaglia di Kosovo Polije, 1389) «È ormai rimasto privo di serbi. E il tutto è avvenuto alla presenza di coloro che avrebbero dovuto portare la pace e un certo benessere a tutto il popolo kosovaro». La ex regione della Federazione Jugoslava, indipendente dal 2008 (ma tuttora non riconosciuta dalla Serbia, dalla Russia, da Israele, dalla Grecia, dalla Spagna e da altre 70 nazioni del mondo), è infatti tuttora amministrata dall’Onu e presidiata militarmente dalla Kfor, una forza multinazionale a guida Nato di cui fa parte anche l’Italia. Dunque queste violenze sono avvenute sotto gli occhi dei tutori internazionali dell’ordine. Il ministro senza portafoglio per il Kosovo, da Belgrado, Aleksandar Vulin, denuncia il silenzio della comunità internazionale sui fatti di 10 anni fa e su tutte le violenze successive. «Vogliamo che ricordino che quei crimini non sono mai stati puniti e che noi continuiamo a chiedere che lo siano. Che noi vogliamo i nomi, non solo dei vandali, ma anche di coloro che hanno dato loro gli ordini».
Il pogrom kosovaro è scoppiato a causa di un duplice assassinio. Il 15 marzo 2004, un ragazzino serbo fu colpito a morte da albanesi armati. Il giorno successivi, mentre i serbi svolgevano manifestazioni di massa nelle città in cui erano maggioranza, tre bambini albanesi vennero rinvenuti affogati in un fiume. Dopo una massiccia dimostrazione anti-serba, il 17 marzo circa 50mila albanesi attaccarono le comunità serbe, ormai in minoranza nella regione. E andarono avanti per due giorni a bruciare case, chiese, negozi, monasteri, proprietà. I serbi la ricordano tuttora come la “notte dei cristalli” (alludendo alla prima strage nazista degli ebrei) o il “pogrom del 17 marzo”.
Sarebbe però troppo riduttivo ricordare solo ed esclusivamente questo episodio. Meglio ricostruire, a ritroso, la storia recente del Kosovo.
Secondo gli albanesi del Kosovo, il pogrom del 2004 è una vendetta relativamente “blanda” rispetto a quel che avevano subito negli anni precedenti. Quando la Nato intervenne nel 1999 per porre fine a un anno di guerra civile, gli albanesi stavano subendo una persecuzione sistematica da parte delle forze di sicurezza serbe. Le prime stime del Dipartimento di Stato Usa e quelle dell’Onu parlavano di 11mila morti albanesi. Le successive ricerche nelle fosse comuni hanno permesso di ritrovare 2000 cadaveri delle vittime della persecuzione, ma molti altri sono stati bruciati o sono tuttora nascosti. Il numero preciso delle vittime albanesi è tuttora oggetto di feroci discussioni, specie nei Balcani dove quella storia fa ancora male. Centinaia di migliaia di albanesi sono fuggiti dalle loro case e sono tornati solo dopo la guerra. I serbi (e la minoranza rom, loro alleata), invece, sono fuggiti in massa dopo la guerra e non sono mai più tornati. Orano restano solo le enclave serbe nel Nord del Kosovo (Mitrovica, soprattutto), che si sentono perennemente accerchiate e in pericolo di sopravvivenza.
Tornando indietro con la memoria, gli albanesi si sentono perseguitati almeno dal 1989, quando esisteva ancora la Jugoslavia e l’allora presidente serbo Slobodan Milosevic, quando esisteva revocò lo status di regione autonoma al Kosovo. Dopo alcuni anni di resistenza non-violenta, gli albanesi passarono alle armi, formando il Kla, Esercito di Liberazione Kosovaro. Fu in risposta alla guerriglia della Kla che Milosevic lanciò una violenta campagna di contro-guerriglia nel 1998, coinvolgendo anche i civili, indiscriminatamente. E fu in risposta a quella repressione, che avveniva a meno di tre anni dalla fine della lunga e sanguinosa guerra civile in Croazia e Bosnia, che intervenne la Nato, col beneplacito dell’Unione Europea, ma senza il consenso del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Se però torniamo al 1989, Milosevic revocò lo status di regione autonoma al Kosovo, perché i serbi locali lamentavano una persecuzione strisciante da parte della maggioranza albanese. Essendo maggioranza e avendo una crescita demografica di molto superiore rispetto a quella serba, gli albanesi stavano facendo di quella regione una loro patria all’interno della Jugoslavia. Di qui la reazione di forza, prima politica, poi anche armata, da parte di serbi che ormai erano minoranza in casa loro. Una condizione che esisteva fin dalla concessione dell’autonomia del Kosovo da parte del maresciallo Tito (fondatore della Jugoslavia comunista) nel 1974, perché l’ex dittatore comunista era preoccupato dalla possibilità di insorgenza di un movimento nazionalista serbo, dunque aveva scientemente penalizzato la popolazione serba nel Kosovo. Fin dalla Seconda Guerra Mondiale, dopo aver stroncato i monarchici (Cetnici), Tito aveva impedito ai profughi di guerra serbi di rientrare nelle loro case. E da lì era nato lo squilibrio demografico, a favore di una popolazione locale albanese. La demografia, poi, ha fatto il resto.
Risalendo all’origine del problema, dunque, sia albanesi che serbi del Kosovo sono vittime delle logiche pianificatrici di un regime comunista. Pagano gli errori di allora, non molto diversamente dagli ucraini in questi mesi. Confini disegnati a tavolino, etnie trattate collettivamente come pedine di un gioco ideologico hanno creato conflitti apparentemente “eterni” e irrisolvibili che non sarebbero mai esistiti. Nell’ultima fase di questa tragedia, la Nato e l’Onu non si sono dimostrate più di tanto in grado di sanare quella ferita. Separare il Kosovo dalla Serbia non è stata una soluzione definitiva. Si rischia di ripetere gli errori di Tito: in Kosovo rimane sempre una minoranza serba, uno zoccolo duro con tutto il suo millenario retaggio, che non può certo essere spostato oltre il confine.