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IL VOTO IN SENATO

Kavanaugh verso la Corte Suprema, una rivoluzione

A meno di un cataclisma davvero imprevisto, Brett M. Kavanaugh è il prossimo giudice della Corte Suprema federale degli Usa. Un risultato eccezionale e clamoroso, visto che in questo modo i conservatori avranno finalmente l’agognata maggioranza. Su di lui l'Fbi non ha trovato nulla di sporco. Mentre sulla sua accusatrice stanno emergendo particolari quantomeno... interessanti.

Esteri 06_10_2018
La protesta al Senato dei progressisti contro Kavanaugh

A meno di un cataclisma davvero imprevisto, Brett M. Kavanaugh è il prossimo giudice della Corte Suprema federale degli Stati Uniti d’America. Un risultato eccezionale e clamoroso, visto che in questo modo i conservatori avranno finalmente l’agognata maggioranza nel massimo tribunale del Paese e quell’assise sarà la più conservatrice dagli anni 1930 in qua.

Certo, il voto finale si terrà oggi, a partire dalle 16,30 ora italiana, ma il “pre-voto” di ieri ha già di fatto chiuso la partita. Ieri, infatti, il Senato ha espresso il voto procedurale per dichiarare conclusa la fase dibattimentale del processo di ratifica della candidatura di Kanavaugh aprendo al voto tombale che oggi deciderà se confermarne la nomina, promuovendolo o meno da judge a justice. Ma i “sì” di ieri sono stati 51 e i “no” 49, e praticamente per nessuna ragione oggi la maggioranza dovrebbe cambiare, soprattutto dopo le intenzioni di voto espresse ieri, diverse ore dopo il voto, quasi alle 22,00 ora italiana. dagli unici due senatori che oggi avrebbero potuto alterare il risultato, la Repubblicana Susan Collins e il Democratico Joseph Manchin. Vediamo perché.

Il voto di ieri ha rispecchiato esattamente i numeri che al Senato hanno i Repubblicani (51) e i Democratici (49: in realtà 47 più due indipendenti che però votano sempre con i Democratici). Ma i 51 “sì” di ieri non sono stati tutti Repubblicani: la senatrice Repubblicana di sinistra (rara avis) Lisa Murkowski ha votato “no”, compensata però immediatamente da Manchin, l’unico Democratico che abbia votato “sì”, un Democratico del West Virginia ondivago che talvolta ha votato a favore di cause conservatrici. I partigiani di Kavanaugh hanno gioito pregustando la vittoria, ma a freddarli subito è giunto l’annuncio, diramato immediatamente dopo il voto, che alle 15,00 ora di Washington (le 21,00 in Italia), Susan Collins avrebbe rilasciato una dichiarazione.

Ora, la Collins è l’altra senatrice Repubblicana di sinistra (fortunatamente sono solo due) che fa spessissimo coppia con la Murkowski. Ieri ha votato “sì”, ma magari solo per accelerare l’occasione di un “no” oggi. La sua promessa di una dichiarazione importante è infatti a lungo sembrata un “no” annunciato. Invece è accaduto esattamente il contrario. La Collins si è prodotta in un discorso di quasi 50 minuti, dotto, forbito, a tratti davvero da antologia della retorica pubblica, per spiegare ai compagni di partito e all’opposizione (con cui spesso si schiera) perché Kavanaugh non è affatto il mostro giuridico che la “piazza” liberal, sia essa parlamentare, mediatica o popolare, descrive proditoriamente da settimane. Anzi, che Kavanaugh non sarà affatto un uomo divisivo come la Sinistra teme e urla, e proprio questo è stato il motivo forte con cui la Collins si è schierata a favore della ratifica della sua nomina. Lo ha sicuramente fatto con argomentazioni indigeste alla Destra, ma il suo sorprendente “progressismo conservatore” alla fine ha sconfitto la Sinistra. Anche perché, dopo appena due, al massimo tre minuti il senatore Democratico Manchin ha confermato che anch’egli voterà un altro “sì” anche oggi. Appunto: a meno di un cataclisma davvero imprevisto, Brett M. Kavanaugh è il prossimo giudice della Corte Suprema. In teoria potrebbe ancora esserci un franco tiratore, ma sino a ora non se n’è nemmeno presagita l’ombra.

E per bocciare Kavanaugh non ne basterebbe peraltro uno, ma ce ne vorrebbero almeno due. Uno solo, infatti, porterebbe il voto del Senato alla parità, 50 a 50, e a quel punto sarebbe risolutorio il voto del presidente del Senato, che è il vicepresidente federale Mike Pence, che è un “sì” certo. Qualcuno avanza, ma nemmeno troppo convintamente, il nome del Repubblicano Jeff Flake, che ieri ha comunque votato “sì”, ma è un’ipotesi ardita. Il suo nome circola perché è stato l’ago della bilancia nel voto espresso dalla Commissione bipartisan e a maggioranza Repubblicana (rispecchiando le proporzioni del Senato) incaricata di valutare la candidatura di tutti i giudici federali di nomina presidenziale che venerdì 28 settembre ha dato via libera al voto plenario Senato di ieri e di oggi all’indomani dell’oramai famosa udienza di Christine Blasey Ford, la 51enne californiana docente universitaria di Psicologia clinica che, tra molti «non ricordo» e un bel po’ di contraddizioni, accusa Kavanaugh di avere cercato di stuprarla, con un complice, 36 anni fa, ai tempi del liceo.

Una settimana fa Flake è stato cruciale perché, dapprima indeciso (e i Democratici ci hanno sperato moltissimo), ha poi scelto di votare come i colleghi Repubblicani affinché l’intero Senato avesse la possibilità di giungere al voto finale (appunto quello di oggi), ma vincolando il proprio “sì” alle famose indagini dell’FBI invocate dall’opposizione e quindi aggiudicando a Kavanaugh solo una mezza vittoria: “vittoria” perché con il voto di Flake il “caso Kavanaugh” ha finalmente lasciato il Senate Committee on the Judiciary per approdare all’aula, “mezza” perché per volontà di Flake sono stati procrastinati di qualche giorno il voto procedurale che altrimenti si sarebbe tenuto lunedì 1° ottobre e quello finale calendarizzato per il giorno seguente.

Stante che l’indagine dell’FBI chiesta dai Democratici e svolta perché Flake si è impuntato sembrerebbe cosa logica e doverosa ma non lo è affatto (come spiegato in precedenza su queste stesse colonne), il ritardo con cui il voto finale su Kavanaugh arriva solo oggi ha infatti semplicemente tirato la volata ai Democratici. Perché tutto lo sfruttamento emotivo, mediatico, propagandistico e politico che i liberal hanno fatto e fanno della testimonianza della Blasey Ford ha mirato a ottenere un solo scopo: ritardare quanto più possibile il voto del Senato, anche solo di pochi giorni, nella speranza che la macchina del fango riuscisse a macinare altro guano e che, calunnia calunnia, qualche altro accusatore, o anche solo qualche temerario in cerca di 15 minuti di celebrità, scodellasse l’ennesima accusa non provata e non provabile contro Kavanaugh onde spostare ancora oltre il voto finale. All’infinito? Ovviamente no, ma almeno sin dopo il 6 novembre, giorno delle elezioni “di medio termine” in cui i Democratici sperano, appunto pompando aria nel “caso Kavanaugh”, di strappare il Senato ai Repubblicani. Se questo avvenisse, un nuovo Senato a maggioranza Democratica polverizzerebbe la candidatura Kavanaugh in un battito di ciglia e con lui quella di qualsiasi altro candidato conservatore che Trump volesse nominare al massimo tribunale del Paese.

Ma non è successo. L’indagine dell’FBI tanto invocata non ha prodotto nulla e nulla hanno sortito i goffi tentativi di gettare nuovo discredito su Kavanaugh. L’FBI, che certo non ha mai fatto sconti all’Amministrazione Trump, ha scoperto nulla perché nulla c’è da scoprire. Se io dico che 40 anni fa un tizio mi ha fatto del male in un posto dove non c’era nessuno, la polizia non potrebbe mai provarlo nemmeno se io dicessi il vero. Lo stesso dicasi per le accuse della Blasey Ford. Parrebbe essere una sua debolezza e invece è una grande forza. Basta saperla sfruttare appropriatamente. Siccome nessuno potrà mai né sementire né confermare, resterà soltanto quello che la propaganda saprà seminare: la sfiducia verso un professionista altrimenti al di sopra di ogni sospetto. Non dovrebbe mai essere possibile aprire una vertenza in assenza almeno della possibilità teorica di provare o di smentire le accuse oltre ogni ragionevole dubbio. Perché se le accuse fossero vere, nessuno potrà mai essere incriminato e punito, e se invece fossero false, nessuno potrà mai liberarsi dalle malelingue.

Però, mentre l’FBI non trovava nulla su Kavanaugh, qualcosa sulla Blasey Ford è venuta fuori. Psicologa, è un’esperta dell’ipnosi e del controllo mentale. Ha per esempio fatto parte di un pool di ricercatori che nel 2008 ha pubblicato uno studio scientifico sull’argomento: finanziato dalla ricca Mental Insight Foundation (che a questi temi pone grande attenzione) e intitolato Meditation With Yoga, Group Therapy With Hypnosis, and Psychoeducation for Long-Term Depressed Mood: A Randomized Pilot Trial, è comparso sul Journal of Clinical Psychology. A p. 808 vi si legge: «Nel 1964, Abrams ha suggerito l’idea che l’ipnosi possa essere usata per migliorare il rapporto nella relazione terapeutica, per contribuire al ricupero di ricordi importanti e per creare situazioni artificiali che possano permettere al paziente di esprimere emozioni distoniche in modo sicuro». Ora, dove qui si è tradotto con «paziente» il testo dice letteralmente «cliente» e con «egodistonico» la psicologia intende qualunque comportamento o idea che non sia in armonia con i bisogni dell’io, o specificatamente coerente con l’immagine e la percezione che il soggetto ha di sé. Si definisce per esempio tale chi non accetta il proprio orientamento sessuale, vivendo con disagio la sessualità naturale o l’astinenza. E l’Abrams citato è l’autore di Implications of Learning Theory in Treatment of Depression by Employing Hypnosis as an Adjunctive Technique, pubblicato nel 1964 sull’American Journal of Clinical Hypnosis. Cioè lo psicologo forense Stanley Abrams (1930-2012) che ha fondato la W.O.S.C. School of Polygraph: ecco che entra in scena la macchina della verità, a cui anche la Blasey Ford si è recentemente sottoposta per il “caso Kavanaugh”. Esperto ascoltato in molti processi penali, Abrams è stato anche perito di parte nella difesa di Patricia Hearst, la ricca ereditiera statunitense rapita nel 1974 a Berkeley, in California, dall’Esercito di liberazione simbionese, un gruppo di terroristi e di omicidi di estrema sinistra, in maggioranza donne e alcune di loro lesbiche. Ben presto, la Hearst prigioniera aderì all’ideologia dei propri carcerieri e si trasformò in “Tania, la guerrigliera” rapinando banche, talora anche con il morto, e mettendo bombe alle auto della polizia. La difesa della Hearst ha sempre puntato tutto sulla teoria del “lavaggio del cervello”.

Un’altra ricerca su argomenti non lontani cui la Blasey Ford ha partecipato è Interoception and Mental Health: A Roadmap, pubblicato su Biological Psychiatry: Cognitive Neuroscience and Neuroimaging nel giugno scorso. Ipnosi, dunque, ipotesi interessante.