Joseph, Teresa, Edith e i bambini nati nel convento
Cronaca dal Carmel, il convento carmelitanodi Bangui, in Centrafrica, con migliaia di rifugiati. Un Natale celebrato nella guerra dello scorso anno che ci ha dato tregua. Ma soprattutto nella gioia della nascita di Gesù e di altri bambini, segni viventi dell’Incarnazione del Signore. E poi i giocattoli misteriosamente arrivati...
È ormai un po’ tardi per offrirvi qualche racconto natalizio, ma al Carmel di Bangui, nella Repubblica Cantroafricana, è come se fosse sempre Natale. E questa volta i bambini saranno i protagonisti di quanto vi racconterò.
La mattina del 5 dicembre 2013, quasi al termine della Messa, i colpi di armi pesanti si erano intrecciati con il canto delle nostre preghiere. Solo quel giorno, nei quartieri della città, oltre ai saccheggi e alle case incediate, venivano uccise circa 500 persone. Non eravamo ancora consapevoli che quegli spari avrebbero modificato – così tanto e così a lungo – la nostra vita. Poco dopo arrivavano al nostro convento migliaia di persone. Quasi senza accorgercene ci eravamo trasformati improvvisamente in un grande presepe. Quel presepe è ancora qui, le statuine sono solo un po’ diminuite: ne sono rimaste circa 4.000, affezionatissime. Ogni tanto ritorniamo con un po’ di nostalgia a quei primi mesi: quando i bambini dormivano in chiesa, le donne partorivano in refettorio e noi si mangiava riso e fagioli nel corridoio delle nostre celle. Non capita tutti i giorni – e soprattutto non capita in tutti i conventi – di alzarsi al mattino, affacciarsi in refettorio e chiedere al dottore: «Quanti bambini sono nati questa notte?». E poi, sempre a proposito di bambini, fa una certa impressione vederli crescere. Vi ricordate di Jean de la Croix, il primo bambino nato al Carmel, il 13 dicembre 2013, nella chiesa del convento? Ora cammina e balbetta qualche parola. Chissà come sarà bello, un giorno, raccontargli la sua storia.
Siamo noi stessi stupiti di come siamo riusciti ad arrivare fin qui, conciliando le più o meno rigorose esigenze di un convento carmelitano con le altrettanto legittime esigenze di migliaia di profughi. Ormai ci siamo così abituati alla loro presenza che capita di domandarci come occupavamo le giornate prima del loro arrivo, quando eravamo un convento normale. E vorremmo quasi suggerire a ogni convento o monastero di provare ad accogliere un po’ di profughi, anche solo per qualche mese, per sperimentare quali benefici procuri la loro presenza sulla vita comunitaria, recuperare un po’ di grinta e poi ripartire con nuovo slancio. Da circa tre mesi la situazione in capitale è indubbiamente più tranquilla. Ma è troppo presto per dire che sia scoppiata la pace; forse si sono semplicemente stancati di fare la guerra. E ci sono purtroppo alcune zone al nord dove non mancano scontri e tensione. Nel frattempo i 12.000 soldati dell’Onu si stanno installando nell’intero Paese. Di per sé è prevista una conferenza di pace e, se Dio vorrà, entro la fine dell’anno ci saranno le tanto attese elezioni.
La vita del nostro campo profughi procede abbastanza normalmente. L’unico grande cambiamento è la ricollocazione di molte tende che, invece di essere addossate al convento, si trovano ora a una certa distanza (cioè a circa 30 metri). E forse un po’ ci dispiace di non averli più così vicini come un tempo. I profughi hanno dato alle loro nuove tende nomi ambiziosi: Arca di Noè, Tempio di Salomone, Casa Bianca… La Croce Rossa Internazionale ha compiuto un meticoloso censimento con strumenti ad alta tecnologia, assegnando a ogni capo-famiglia una tessera con tanto di foto e codice a barre. Tale censimento ha dato come risultato la presenza sul nostro sito di più di 1.000 nuclei famigliari. Nei prossimi mesi dovrebbero incominciare delle attività per favorire il ritorno nei quartieri di origine. Speriamo che sia la volta buona, e che il prossimo Natale i profughi possano festeggiarlo nelle loro case e non sotto tendoni di plastica.
Abbiamo pensato che il modo migliore per celebrare l’anniversario del 5 dicembre fosse un’Eucaristia per tutti i defunti: le vittime della guerra, chi è morto per costruire la pace e quanti sono morti per malattia nel nostro sito, anziani e non pochi bambini. Abbiamo ricordato inoltre tutti quelli che ci hanno aiutato e abbiamo ringraziato il Signore per tutti i bambini che sono nati al Carmel. La Messa è stata presieduta da padre Mesmin e il sottoscritto ha tenuto l’omelia. Quando ho ringraziato i profughi per averci costretto a vivere il Vangelo mi sono un po’ commosso. Poi, al momento dell’offertorio, i nostro ospiti ci hanno fatto una bella sorpresa, quasi per offrire il loro contributo e per supplicarci di continuare ancora un po’, soltanto un po’, quel miracolo della moltiplicazione dei pani iniziato un anno prima. Tutti i responsabili delle diverse zone del campo hanno organizzato una danza portando doni non per i poveri, ma per la comunità: pane e vino (acquistati da loro!) e poi pesci, uova, banane, pomodori, cetrioli e stoffe colorate (che saranno trasformate in dodici camicie per ogni frate)… Come sapeva di Vangelo quell’offertorio! Fare un dono a un povero è qualcosa di bello, da incoraggiare, a cui ci si abitua anche e che ti fa sentire il salvatore del mondo e la coscienza a posto; ma ricevere un dono da un povero è tutta un’altra cosa, che avviene quando meno te l’aspetti e che ti fa venire la pelle d’oca e le lacrime agli occhi.
Nella mia precedente lettera vi avevo informato dell’imminente quinto centenario della nascita della nostra fondatrice, santa Teresa di Gesù. Ogni carmelitano e carmelitana che si rispetti è moralmente obbligato a fare un regalo a quella che, quando siamo tra noi, chiamiamo semplicemente “la santa madre”. Per quanto ci riguarda è stato piuttosto facile. Proprio la sera del 14 ottobre, vigilia della festa di santa Teresa, una coppia si presenta al convento mentre stiamo facendo la ricreazione. Pur non essendo un dottore, l’addome e i lamenti della donna mi fanno immediatamente capire di cosa si tratti. In pochi secondi mi trovo al volante della nostra vecchia Mitsubishi L200, mentre i miei confratelli, intuendo il mio pensiero, mi salutano dicendo: «Speriamo che sia femmina, così la chiamiamo Teresa». Nonostante lo stato della strada, cerco di fare il più presto possibile: ci manca più solo il parto in macchina! Quando siamo arrivati, mi presento: «Non sono il padre del bambino, ma un padre del Carmel». Le infermiere scoppiano a ridere e accompagnano la donna nella sala parto. La nascita non è imminente e quindi ritorno al Convento.
L’indomani mattina arriva il papà che m’informa della nascita di un maschietto e, con insistenza, mi chiede di dare un nome al bambino. Gli domando perché ci tiene così tanto. «Mon père, avete sofferto anche voi per metterlo al mondo». Doglie a parte un po’ di ragione ce l’ha. «E poi, mon père, è il nono figlio che metto al mondo. Con tutto quello che voi frati avete fatto per noi, posso rinunciare a questo privilegio». E qui ha più ragione di prima. Ma come chiamarlo? Thérésien? Teresianum? Poi un’intuizione. «Si potrebbe chiamarlo Joseph». Teresa, quanto a devozione a questo santo, non badava a spese. Sono sicuro che gradirà il nostro regalo. «C’est bien, mon père! È il nome di mio padre». Ed io mi accorgo che è anche il nome di chi mi ha messo al mondo trentasette anni fa.
Poi è arrivato Natale e il sogno di fare un piccolo dono a ogni bambino del nostro campo profughi non ci fa quasi dormire. Fare un regalo è già un problema per chi di figli ne ha uno o due, immaginatevi per chi se n’è trovati all’improvviso più di mille. Sarà anche vero che i bambini africani sono più facili da accontentare rispetto ai loro coetanei europei… ma sono sempre troppi e sono pur sempre bambini. E quindi cacciamo via dalla testa ogni progetto, quasi fosse un cattivo pensiero. Poi avviene il miracolo. Evidentemente non eravamo gli unici ad avere questo sogno. Il pomeriggio del 24 dicembre si presentano in convento una ventina di distinti signori, molto seri e ben vestiti. Appartengono a una sconosciuta associazione centrafricana. Dalle loro macchine scaricano cinque grossi scatoloni e ci dicono: «Vi abbiamo portato 1.600 giocattoli per i vostri bambini da 0 a 5 anni. Vi chiediamo di distribuirli appena vi è possibile». E i distinti signori, inviati chissà da chi, spariscono così come erano arrivati. Quasi non ci sembra vero. Ci organizziamo subito per la distribuzione. Dividiamo i giocattoli per genere e riempiamo 48 grandi borse. Ogni frate riceve quattro borse e usciamo dal convento in fila indiana.
Padre Mesmin precede la processione con la statua di Gesù Bambino. Noi lo seguiamo, con i nostri doni, cantando, suonando e danzando al ritmo di tam-tam, nacchere e campanelli secondo la migliore tradizione carmelitana (opportunamente inculturata). I bambini, dopo un iniziale smarrimento, non stanno più nella pelle. E chi se ne importa se quest’anno Babbo Natale, invece di avere la barba bianca, il vestito rosso e le renne, si è moltiplicato in dodici giovani frati, vestiti di marrone e neppure tutti con la barba, che saltano come matti dietro la statua di Gesù Bambino? In poco più di un’ora riusciamo a distribuire i doni e augurare buon Natale a tutti i nostri profughi. E confesso che in quel momento non avrei voluto essere in nessun altro posto se non qui, con questi confratelli e con questa gente.
Segue una simpatica rappresentazione natalizia, una sorta di presepe vivente accompagnato dalla lettura del Vangelo. In nostri amici si sono presi qualche licenza biblica: il censimento sembra quello della Croce Rossa, i soldati romani sono vestiti come la Seleka e san Giuseppe, che nel Vangelo non dice proprio un bel niente, qui da noi è stato piuttosto loquace. Si è addirittura presentato dalla Madonna con una proposta di matrimonio piuttosto spiccia, ma convincente: «Maria, se ho capito bene, perché sinceramente dormivo, Dio mi ha detto che devo prenderti in moglie. Se sei d’accordo dobbiamo andare subito a Betlemme». E la Madonna, almeno questa volta, non si è fatta pregare. Poi la Messa di mezzanotte che abbiamo celebrato alle sette di sera. Per noi è già un segno di pace, in quanto l’anno scorso, a causa delle guerra, eravamo stati costretti ad anticipare la celebrazione alla tre del pomeriggio.
Al mattino di Natale la Messa è particolarmente solenne in quanto sono previsti ben 12 battesimi. Una vera eccezione perché la nostra chiesa non è parrocchia. Per me, missionario per caso e un po’ fai-da-te, si tratta anche dei primi battesimi che amministro in terra africana. Tra i battezzati c’è Jean de la Croix, Teresa, Edith, Joseph… Il paradiso carmelitano ha di che rallegrarsi. Alla Messa sono presenti anche gli Alpini italiani guidati dal colonnello Renna. Terminata la celebrazione estraggono dai carri armati palloni, penne, quaderni e matite colorate donate dagli Alpini di Casale Monferrato, Torino e Como. Un dono davvero inaspettato. Che bella questa Italia, discreta e imprevedibile, ineguagliabile per generosità! I nostri bambini sono ovviamente contenti, ma anche un po’ un po’ confusi: oggi Babbo Natale non è né rosso né marrone, ma verde, indossa un giubbotto anti-proiettile e porta sulla testa un bizzarro cappello con una lunga penna nera!
Ma non pensate che sia finita, perché qui il Natale lo si fa sul serio. La notte ci riserva ancora una sorpresa. È ormai l’una e mezzo e stiamo tutti dormendo, quando mi chiamano al cancello. Una donna deve partorire. Corro subito a svegliare Aristide, nostro aspirante e valido infermiere. Dopo averla visitata, mi dice che non conviene andare in ospedale perché il parto è imminente. A questo punto i ruoli s’invertono: Aristide è il padre maestro ed io il novizio (un po’ emozionato, a dire il vero). In pochi istanti la sala del capitolo si trasforma in sala parto. Abbiamo addirittura una trombetta di legno per ascoltare il battito del bambino. Accanto alla partoriente siede una donna anziana, madre di ben otto figli. Mentre le sue mani ruvide sgranano un rosario consumato, offre preziosi consigli su come spingere, come respirare e su altre cose che non mi avevano spiegato quando studiavo teologia. La sua tranquillità è impressionante, quasi sapesse il momento esatto in cui avverrà il parto. La partoriente non emette un grido, solo invocazioni e preghiere, quasi non volesse turbare il silenzio del convento.
Poi viene al mondo una bella bambina. Dopo il taglio del cordone ombelicale, la neonata è adagiata tra le braccia dell’anziana donna che l’asciuga, la riveste, l’accoglie, come se una catena di generazioni, di saggezza e di femminilità avesse bisogno di guardarsi e di stringersi per continuare il ciclo della vita. A questo punto interviene il padre. Raccoglie la placenta e il cordone ombelicale per sotterrarli: un gesto ancestrale, augurio di ulteriore fecondità. È quasi l’alba e tra poco suonerà la campana per la preghiera. Aristide – e sia ringraziato Iddio per avercelo fatto conoscere solo qualche giorno prima che scoppiasse la guerra! – scherza e suggerisce di mettere la bambina nel presepe, al posto della statua di Gesù Bambino, e vedere la reazione dei confratelli. Ma si ricorda che non abbiamo ancora pesato la bambina. Ci spostiamo in biblioteca, dove si trova una grande bilancia. Poso il corpicino della bambina sul piatto della bilancia. Com’è romantica la nostra Betlemme! Non ci sono né angeli, né pastori, né magi venuti da Oriente; ma libri di Platone, trattati di sant’Agostino e la Somma Teologica di san Tommaso d’Aquino. Poi guardo la lancetta della bilancia: 3500 grammi di vita, di speranza e di pace.
Missionario carmelitano a Bangui (Centrafrica)