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COMUNISMO CINESE

Jimmy Lai alla sbarra, processo a Hong Kong per colpe retroattive

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Jimmy Lai, editore cattolico di Hong Kong, è ancora a processo. Dopo tre anni di carcere duro, rischia l'ergastolo per essersi espresso contro il regime (quando era legale farlo).

Esteri 19_12_2023
Jimmy Lai

Jimmy Lai, imprenditore ed editore cattolico di Hong Kong, è di nuovo sotto processo. L’accusa è grave: cospirazione con potenze straniere e per la diffusione di informazioni sediziose. Lai è già in prigione da tre anni, provato da un regime carcerario molto duro, quasi sempre in isolamento con appena 50 minuti d’aria al giorno. Era uno degli uomini più ricchi dell’Asia e ha sempre esercitato i suoi diritti, la libertà di religione, di espressione e di stampa. Ma con il cambio improvviso di regime a Hong Kong, con il suo pieno assorbimento nel sistema della Cina comunista, nel 2020 è entrato nel mirino di Pechino.

Le condanne per cui è finito in prigione, sono per partecipazione a manifestazioni non autorizzate e frode. Sono più pretesti che reati, soprattutto nel caso della partecipazione alle proteste che, a Hong Kong, erano sempre state libere fino al 2019.  Con il processo attuale, dove è accusato di aver violato la nuova Legge sulla sicurezza nazionale, Lai rischia il carcere a vita. Anche lunghe pene detentive, per un uomo di 76 anni, comunque, potrebbero trasformarsi in una sentenza definitiva.

Jimmy Lai, in particolare, viene accusato di aver chiesto sanzioni internazionali contro Hong Kong, attraverso il suo quotidiano, l’Apple Daily, tramite le interviste rilasciate a media stranieri e scrivendolo sui suoi post su Twitter. L’accusa sostiene che abbia pagato messaggi pubblicitari nella stampa estera per promuovere manifestazioni contro il governo di Hong Kong nel 2019. Gli viene contestato anche il viaggio negli Stati Uniti, dove aveva incontrato l’allora vicepresidente Mike Pence e Mike Pompeo, il Segretario di Stato dell’amministrazione Trump.

Da notare, comunque, che tutte queste attività erano legali nella Hong Kong del 2019, prima che la Cina intervenisse a gamba tesa, imponendo le sue leggi, per uniformarla al resto del paese. Ora sono tutti diventati reati, retroattivamente.

Ben sei ex direttori e dirigenti dell’Apple Daily sono già stati arrestati. Il giornale stesso ha dovuto chiudere i battenti nel 2021, dopo che centinaia di poliziotti avevano perquisito i locali in diretta televisiva, con un raid particolarmente spettacolare e i suoi conti erano stati chiusi. L’ultimo numero del quotidiano di opposizione aveva venduto un milione di copie, a dimostrazione che era tutt’altro che una piccola cricca di sediziosi pagati dall’Occidente.

Il processo che si è aperto ieri (lunedì 18 dicembre) è un test importante per la magistratura honkonghese. Potrebbe essere il primo vero processo politico di stampo comunista nell’ex colonia britannica. A Jimmy Lai, che è cittadino britannico, non è stato concesso l'avvocato inglese di sua scelta, Timothy Owen. Il governo ha nominato il collegio dei tre giudici e manca una giuria popolare. L’evento ha catalizzato l’attenzione dell’opposizione. Oltre alla moglie Teresa, che trent’anni fa convertì Jimmy al cristianesimo, in aula, nel pubblico, c’era anche l’arcivescovo emerito Joseph Zen, condannato per motivi politici, poi scarcerato su cauzione. Fuori dall’aula, la fitta presenza di agenti di polizia non ha impedito la protesta individuale dell’anziana dissidente Alexandra Wong, reduce da un’allucinante esperienza di arresto arbitrario e “rieducazione” in Cina fra il 2019 e il 2020.

Il figlio maggiore di Jimmy Lai, Sebastien, in visita a Londra, in occasione dell’inizio del processo al padre, ha ricordato ai giornalisti il suo coraggio, per essere rimasto a Hong Kong nonostante la certezza di essere ormai nel mirino del nuovo regime. «La permanenza di papà a Hong Kong è la prova che questa cosa intangibile chiamata “libertà” è un qualcosa cui la gente anela - ha detto - Si può definire come un valore occidentale, ma in realtà non lo è, perché non solo in Occidente la vogliono o la meritano».

Il processo è una questione che riguarda direttamente Londra, se non altro perché Jimmy Lai ha un passaporto britannico. E perché Hong Kong era stata restituita nel 1997 dal Regno Unito alla Repubblica Popolare Cinese solo dietro la promessa del rispetto della sua piena autonomia e della preservazione delle sue leggi di stampo britannico. «La Legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong è una chiara violazione della Dichiarazione congiunta sino-britannica – ha dichiarato David Cameron, segretario agli Esteri - La sua esistenza e il suo utilizzo sono la dimostrazione che la Cina non rispetta i suoi impegni internazionali. Ha danneggiato Hong Kong, con una significativa erosione dei diritti e delle libertà. Gli arresti previsti dalla legge hanno messo a tacere le voci dell'opposizione. Sono seriamente preoccupato per il fatto che qualcuno stia rischiando di essere perseguito in base alla legge sulla sicurezza nazionale, e sono particolarmente preoccupato per l'accusa politicamente motivata di Jimmy Lai, cittadino britannico». «Esorto le autorità cinesi ad abrogare la Legge sulla sicurezza nazionale e a porre fine ai procedimenti giudiziari nei confronti di tutte le persone accusate in base ad essa. Invito le autorità di Hong Kong a porre fine all'azione penale e a rilasciare Jimmy Lai» ha concluso l’ex premier, ora titolare della politica estera del Regno Unito.

Prima di Londra, in novembre, erano stati 10 vescovi dagli Usa (il cardinal Dolan), Canada, Australia, Regno Unito, Irlanda, Lituania, India e Nigeria a chiedere la scarcerazione del cattolico Jimmy Lai. I vescovi chiedevano di: «… rilasciare immediatamente e incondizionatamente Jimmy Lai, accusato di aver sostenuto la democrazia attraverso il suo giornale e diversi interventi pubblici. Non c’è posto per tale crudeltà e oppressione in un territorio che pretende di sostenere lo stato di diritto e rispettare il diritto alla libertà di espressione».

La Cina ha respinto ogni tentativo di “ingerenza straniera”. In compenso ha posto una taglia di circa 120mila euro sulla testa dei dissidenti di Hong Kong fuggiti all’estero.