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INTERVISTA A PUPI AVATI

«Italia ingrata con Dante, racconto la sua "divina" umanità»

«L'Italia deve risarcire l'Alighieri per averlo confinato in un angolo edulcorato, invece con questa pellicola consegno la carnalità, il dolore e l'umanità di un genio ineffabile, che ha toccato il sacro e l'eterno con la sua poesia. Piacerà più alle scuole che alla critica». La Bussola entra in sala con Pupi Avati, che è già ai vertici delle classifiche con Dante. «Questo film è la summa di 50 anni di lavoro, non si può giudicare solo cinematograficamente». 

Cinema e tv 08_10_2022

È un Dante Alighieri umano, carnale, che ha nella sua poesia il tratto divino più marcato, ma anche un Dante che ha sofferto e a cui l’Italia, in occasione delle celebrazioni a 700 anni dalla morte, non ha giustamente riconosciuto meriti e onori. Pupi Avati corona il sogno di portare al cinema un’opera unica, dedicata al sommo poeta che era nella sua testa da 18 anni e nella quale, come dice in questa intervista alla Bussola, «c’è tutto me stesso, c’è la summa del mio cinema».

Pupi Avati, partiamo da una domanda inconsueta: perché vediamo Beatrice che mangia un cuore insanguinato?
Volevo rispecchiare esattamente quello che è il sogno che fa Dante e che descrive con dovizia di dettagli nella Vita Nova, non mi sono inventato nulla.

Che cosa racconta?
È il 1° maggio 1274, a nove anni incontra Beatrice, se ne innamora, la segue per nove anni fino a quando lei si gira e lo saluta. Quindi inizia un momento di gioia così totale, così assoluta che corre a casa, si mette a letto, si addormenta e fa questo sogno/incubo.

Il cuore?
Lei, nuda tra le braccia di Amore gli mangia il cuore, lo descrive proprio così. È il passaggio più significativo della sua vita: questa donna lo ha introitato, lo ha portato dentro di sé per cui deve scrivere questo momento e deve descriverlo con la poesia.

Sembra una scena horror e l’horror è un suo grande classico...
È vero, è un’immagine che mi ricorda qualche cosa che va al di là dei cliché, delle visioni poetiche, rassicuranti. Ci sono immagini e momenti di questo tipo, effettivamente. Ad esempio, quando Boccaccio va a cercare suo padre tra gli appestati...

O la bambola che dona alla figlia, che lei poi seppellisce come fosse un bambino morto...
C’è una parte del racconto, non voglio dire orrorifica, ma sicuramente gotica che è funzionale a raccontare quell’epoca medievale.

Come le scene di realismo quasi verista, crude, sanguigne e “temerarie”. Nessuno ha mai immaginato Dante che si china per defecare in un prato prima della battaglia o che fa l’amore pensando a Beatrice...
Bravo. Ho cercato di restituire Dante in una sua quotidianità, anzitutto avvicinandolo a noi, facendolo scendere dal piedistallo in cui l’abbiamo collocato e allontanato ho cercato di agganciarmi a quel Dante ragazzo, ma è lo stesso tentativo che fa Boccaccio (Sergio Castellitto ndr.) quando finalmente riesce a incontrare la figlia e le dice: «Io, suo padre lo vedo sempre ragazzo».

Nel film questo realismo si armonizza con una tensione spirituale attraverso il mezzo della poesia.
Ma io ho voluto togliere la lettura edulcorata che gli abbiamo dato, Dante è stata una persona che ha sofferto per tutta la vita, ma questa sofferenza è stata sublimata dalla poesia, che è stata la sua forza.

Effettivamente, ci risulta difficile pensare a un Dante sofferto e tormentato, l’aura di cui è cinto attenua il dramma della sua vita: esiliato e con una taglia sulla sua testa fino alla morte...
Vedi, il dolore produce creatività, nei tanti film che ho fatto mi sono reso conto che l’espressione più pura del talento si tira fuori nel dolore. Anche nelle scuole dove insegno vedo che i ragazzi più talentuosi sono quelli che hanno sofferto: la sofferenza produce una conoscenza della vita attraverso la vulnerabilità, che ti mette in contatto con le cose, con la vita, con gli altri, ma in un contatto molto più profondo. 

Il film è un film su Dante, ma non è né una biografia né una “scimmiottatura” della Divina Commedia…
È un rischio dal quale mi sono tenuto lontano. La Commedia, che poi attraverso Boccaccio diventa divina non può essere visualizzata, è un qualche cosa di ineffabile, di totalmente risolto, provare ad aggiungere figura a figura equivarrebbe a ridurla.

Ad esempio, il racconto di Paolo e Francesca arriva agli orecchi di Dante per quello che doveva essere all’epoca: un sanguinoso fatto di cronaca.
È il Tommaseo che ci racconta di come Dante viene a sapere di Paolo e Francesca prima della Battaglia di Campaldino, dal fratello di lei, che raccontava ai soldati questa storia atroce della sua famiglia.

E si poteva cadere nella tentazione di visualizzarla?
Esatto. Anche quando viene a conoscenza della tragedia del Conte Ugolino capiamo quali sono state le fonti più inattese che hanno prodotto in lui quell’elenco di personaggi che diventeranno quel “libro solo di morti” di cui parla la mugnaia nel Casentino che lo sta ospitando.

Come crede che verrà recepito dalle scuole?
Benissimo. Anche dantisti che non hanno partecipato alla consulenza del film stanno apprezzando la pellicola, non so quante siano già le università che ci stanno chiedendo di proiettarlo.

Secondo lei perché?
Perché ci avvicina questa capacità di renderlo umano, seducente. Dante diventa uno di noi. Io mi immagino un professore di terza liceo che dice: «Meno male, forse adesso i ragazzi staranno più attenti».

Decidere di raccontare Dante è un’impresa unica, che nessuno ha mai tentato. È stato anche coraggioso?
Togli pure l’“anche”. Ho impiegato 20 anni per trovare un committente. È stato coraggioso perché il personaggio ci sovrasta, ma io mi sono servito di una password particolare.

Quale?
Boccaccio, senza Boccaccio non avrei mai avuto l’ardire di affrontare un personaggio di questa levatura del quale non si sa tantissimo. La presenza di Boccaccio, il suo itinerario alla ricerca della figlia per risarcirla dell’esilio da parte di Firenze, riesce a sostenere questa grandezza. Boccaccio primo biografo di Dante è il primo a umanizzarlo, è un mediatore tra noi uomini del terzo millennio e lui.

Grande successo al botteghino, il film è stato primo nella prima settimana di uscita, ma, di contro una freddezza di critica.
Il mondo della critica ha sempre i problemi di inadeguatezza, questo è un film per il quale bisogna avere un minimo di preparazione, non si può giudicarlo soltanto cinematograficamente.

Non capisco...
Che non basta giudicarlo da una trama o da un finale o da un’ambientazione, è qualcosa di molto di più, è la summa di tutto il mio cinema, di quello che è il mio sapere cinematografico accumulato in mezzo secolo di film.

Intende dire che lo sente particolarmente suo?
Se dovessi dire qual è il film che mi rappresenta oggi dico questo, se mi avessero fatto fare questo film 20 anni fa quando ho chiesto di farlo, l’avrei concepito diversamente. Mi sono serviti 20 anni di studi.

Pensa che la critica non sia pronta?
Non dico questo, ma sicuramente dovrebbe fare come ho fatto io: premettere un senso di inadeguatezza di fronte al personaggio con cui abbiamo a che fare, entriamo nella sacralità di un personaggio ineffabile.

A proposito di sacro: l’immagine della locandina è il momento dell’incontro tra Dante e Beatrice in cui lei gli dice: “Vi saluto”. Il sacro si tocca con mano…
Un momento sacro ed eterno, che resta sospeso. Boccaccio dice che in quello sguardo c’è l’emozione del mondo, quello sguardo cambia la storia della cultura del mondo, da lì nasce tutto quello che Dante fa e di cui, di conseguenza, altri poeti e letterati gli sono debitori. È la prima grande storia d’amore del mondo non classico, che condiziona tutto quello che è venuto dopo, ad esempio Romeo e Giulietta.

Eppure, era una storia d’amore interamente platonica...
Platonica e sublimata, nel mio romanzo (L'alta fantasia, Solferino) e poi nel film, Beatrice è perfettamente consapevole del ruolo che ha nella vita di questo ragazzo, lo sguardo tra loro è eterno, senza fine.

Dante, in fondo, era un esiliato, è morto in disgrazia. Oggi c’è qualcuno a cui si può accomunare questa sorte ingrata?
No, mi vengono in mente persone in altre società a noi attigue, come nel mondo arabo o in Russia, che soffrono in galera, private della possibilità di esprimersi, tuttavia, questi non hanno sublimato il loro dolore in poesia. La cosa che li distingue da Dante è questo: Dante è un grande poeta.

Il film è il viaggio di Boccaccio alla ricerca della figlia di Dante suor Beatrice per risarcirla dell’esilio nel nome del padre. Che significato ha oggi questo risarcimento?
È un risarcimento che ancora non si è compiuto. Se penso ai festeggiamenti per il 700esimo anniversario della morte (conclusi nel 2021) direi che sono in tanti che dovrebbero risarcire Dante per avergli dato una patina troppo edulcorata o troppo seriosa.

È un mea culpa nazionale da fare?
Le celebrazioni che lo hanno riguardato sono state un’occasione per parlare di sé a livello istituzionale. Le ho vissute con dissenso, Dante mi è sembrato piuttosto un pretesto per autocelebrarsi.

E i suoi attori che cosa dicono di Dante?
Hanno avuto il grande merito di prepararsi molto, di avvertire una responsabilità che faceva tremare i polsi (Dante giovane è interpretato da Alessandro Sperduti ndr.). Le racconto un episodio che riguarda la giovane che ho scelto come Beatrice.

Carlotta Gamba, prego…
Dopo il provino le ho detto: «Lo fai tu». Poi mi sono fatto accompagnare a casa in macchina e, attraversando il Tevere, l’ho vista camminare sul ponte: singhiozzava, con la mano si copriva la faccia. Ho pensato che avvertisse la responsabilità, la paura.

E Castellitto? È sempre in scena, ma non è lui il protagonista.
Castellitto-Boccaccio è l’autore di questa storia che sono io. Sergio ha capito esattamente qual era il mio approccio e come io volessi testimoniare quanto un poeta abbia amato un altro poeta come mai nella storia della letteratura. Quasi tutto quello che dice in questo film è quello che penso io.

Anche la frase finale «conosceva i nomi di tutte le stelle»?
Sì. È mia.