Israeliani in rivolta contro Netanyahu. A Gaza non si ferma il massacro
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Aumenta la protesta contro il governo Netanyahu da parte dei parenti degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. A Gaza continua il massacro.
Mentre nella Striscia di Gaza i superstiti scavano tra le macerie in cerca dei loro cari, in Israele i familiari degli ostaggi protestano contro il governo di Benjamin Netanyahu chiedendo le sue dimissioni. Due realtà, ugualmente drammatiche, collocate su due fronti opposti, ma accumunate dalla sofferenza causata da questa guerra fin troppo feroce.
Se gli abitanti di Gaza, e tra loro anche gli anziani, escono dalle loro tende improvvisate, sin dai primi bagliori dell’alba, per andare alla ricerca dei parenti dispersi sotto le rovine delle case distrutte, i ragazzini, invece, girovagano tra i detriti delle abitazioni rase al suolo in cerca di qualche giocattolo o di qualche libro di scuola. Ma oltre questa tragica devastazione, tra gli abitanti della Striscia c’è un esile spiraglio di speranza. Sono quei 20mila bambini nati dopo quel tragico 7 ottobre dello scorso anno. «Ogni 10 minuti nasce un bambino in questa orribile guerra. Diventare madre dovrebbe essere motivo di festa. A Gaza, però, significa che un altro bambino nasce in questo inferno. La sofferenza dei neonati, mentre alcune madri muoiono dissanguate, dovrebbe tenerci svegli la notte», ha dichiarato la portavoce dell’Unicef, Tess Ingram. E ha poi ribadito: «Dovrebbe tenerci svegli anche sapere che due bambini israeliani, rapiti il 7 ottobre scorso, non sono ancora stati rilasciati».
Sopra Gaza, sfrecciano gli aerei da guerra, che proseguono nella loro opera distruttrice di quello che ancora resta. Nonostante ciò, il governo guidato da Netanyahu ha ordinato al ministro della Difesa Yoav Gallant di intensificare le operazioni nella parte occidentale di Khan Younis, nel sud della Striscia. L’esercito, appoggiato dall’aeronautica, avanza lasciando dietro di sé un numero impressionante di morti e distruzione. I soldati israeliani hanno anche circondato l’edificio centrale della Mezzaluna Rossa paralizzando così qualsiasi possibile intervento di soccorso ai feriti.
Secondo quanto riferito a Gaza, negli attacchi a Khan Yunis, nelle vicinanze di una scuola della città, sono rimaste uccise almeno 50 persone, mentre i feriti sono oltre 100, molti dei quali in gravi condizioni. Il direttore del reparto chirurgico del principale ospedale di Khan Yunis, il Nasser, ha dichiarato che la maggior parte dei morti sono sfollati che avevano trovato rifugio in quel luogo, caduti sotto gli attacchi aerei, il fuoco dell’artiglieria e i proiettili dei soldati israeliani. Migliaia di residenti hanno iniziato ad evacuare Rafah, città situata nelle vicinanze del confine con l’Egitto, dirigendosi verso altre località.
Ma dove andare? È questa la domanda che si pongono gli abitanti di Gaza. Una risposta, cinica, arriva indirettamente da Israel Katz, neoministro degli Esteri del governo Netanyahu: «Si potrebbe costruire un'isola artificiale al largo della Striscia di Gaza. Un luogo, da oltre cinque miliardi di euro, in cui esiliare definitivamente i palestinesi». La proposta è stata fatta da Katz nel corso della riunione dei ministri degli Esteri dell'Unione Europea, ovviamente accolta con molta freddezza. I ministri europei sono rimasti esterrefatti. Nella sala è sceso il gelo. «Non abbiamo bisogno di nessuna isola, né naturale, né artificiale - è stata la risposta del ministro degli Esteri palestinese, Riyad Al-Malik, che respinge, naturalmente, al mittente l’ipotesi israeliana -. Resteremo nel nostro Paese. La terra di Palestina ci appartiene, è nostra. E non permetteremo a nessuno di pensare il contrario. Chi vuol partire per abitare in isole artificiali o naturali, può tranquillamente andarsene. Noi - ha concluso - ci resteremo e resisteremo per restarci e lotteremo per i nostri diritti, per avere lo Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est». Nel frattempo, i morti nella Striscia di Gaza, dall’inizio della guerra, sono saliti a 26500, 7000 i dispersi, mentre i feriti superano le 63mila unità.
In Israele, i familiari dei 136 ostaggi in mano al gruppo terroristico di Hamas hanno protestato contro il governo che da oltre cento giorni non è riuscito a riportare a casa i prigionieri. Non una semplice protesta, ma una contestazione dura, con la richiesta esplicita delle dimissioni del primo ministro Netanyahu.
Lunedì scorso, i parenti degli ostaggi hanno fatto irruzione nel palazzo della Knesset (il parlamento) e i soldati non sono riusciti a bloccarli. Molti di loro portavano cartelli di protesta con le immagini dei loro cari. «Netanyahu non starai qui mentre i nostri figli muoiono a Gaza», hanno gridato i manifestanti. Ed ancora: «Siamo venuti a far sentire la nostra voce. Non ci fermeremo sin quando i nostri figli non saranno ritornati a casa. Nessuno riuscirà a fermarci».
Il ministro delle Finanze di estrema destra, Bezalel Smotrich, in risposta alle richieste dei familiari degli ostaggi ha affermato che l'unico modo per liberare i prigionieri è aumentare drasticamente l'intensità della guerra e la pressione, con tutti i mezzi, su Hamas e i suoi sostenitori. Itamar Ben-Gvir, anche lui ministro di estrema destra, ha aggiunto, sorprendentemente, che se la guerra finisse, il governo crollerebbe.
Ma Netanyahu ha rincarato la dose sbattendo la porta in faccia a Joe Biden e all’Ue: «Finché sarò premier, non ci sarà nessuno Stato palestinese, tantomeno con potere su Gaza», malgrado le richieste unanimi, in tal senso, di Washington e Bruxelles. Il primo ministro ha però aggiunto che il suo governo ha una proposta per la Striscia, suddivisa in tre momenti: il rilascio delle donne e degli anziani ancora in ostaggio in qualche località segreta di Gaza, seguiranno poi i giovani e i soldati e infine la consegna dei corpi degli ostaggi morti. Il piano prevede inoltre la liberazione di un gruppo di prigionieri palestinesi e prolungate pause dei combattimenti. Una fonte egiziana, però, ha reso noto ieri pomeriggio, 23 gennaio, che Hamas ha respinto la proposta di Israele per un cessate il fuoco di due mesi in cambio del rilascio degli ostaggi israeliani ancora detenuti a Gaza. Hamas chiede, invece, la fine dei combattimenti e il ritiro dalla Striscia dei militari con la Stella di Davide prima che i sequestrati vengano liberati.
Mentre i familiari degli ostaggi chiedono le dimissioni di Netanyahu e stazionano davanti alla sua abitazione a Cesarea, tra la popolazione israeliana cresce il malcontento per la politica intrapresa dal capo del governo.
L’elenco dei soldati israeliani morti a Gaza aumenta giorno dopo giorno. Lunedì scorso è stato per l'esercito israeliano il giorno più nero: ben 21 soldati sono rimasti uccisi in un'esplosione che ha causato il crollo di due edifici nelle vicinanze del confine di Kissufim. «Per quanto ne sappiamo - ha detto il portavoce delle forze di difesa israeliane, Daniel Hagari - i terroristi hanno lanciato un razzo contro un carro armato che proteggeva i soldati impiegati nella battaglia, ma contemporaneamente, si è verificata un'esplosione in due edifici a due piani. Gli stabili sono crollati mentre la maggior parte dei militari era impegnata all’interno e all’esterno delle abitazioni». I militari uccisi, dall’inizio dell’operazione di terra, hanno raggiunto così il numero di 219 unità.
Anche l'Egitto è preoccupato per le posizioni del governo israeliano. Il Cairo ha invitato Israele a rispettare il trattato di pace e a non diffondere "false insinuazioni" secondo le quali l'Egitto non sarebbe in grado di difendere i propri confini. «Queste false accuse - afferma una lunga nota dell'ufficio stampa del governo egiziano - non servono al trattato di pace, che l'Egitto rispetta, e chiede che altrettanto la parte israeliana mostri rispetto e smetta di fare dichiarazioni che metterebbero a dura prova le relazioni bilaterali. Il Cairo non permetterà mai a Israele di controllare l'asse di confine, il cosiddetto “Corridoio Filadelfia” tra l'Egitto e la Striscia di Gaza».
Nel frattempo, nella zona del Mar Rosso non si fermano le azioni militari di americani e inglesi contro gli Houti. La coalizione anglo-americana ha attaccato nuovamente le postazioni delle milizie filoiraniane nello Yemen, per l’ottava volta negli ultimi dieci giorni. I ribelli hanno affermato che gli attacchi hanno colpito anche la capitale, Sana’a, oltre alle città di Taiz, Al-Bayda e Hajjah.