Iraq, sciiti contro sunniti? Sarebbe troppo facile
Analista iracheno si addentra in profondità nei due schieramenti. Scoprendo molti membri del Baath (l'ex partito "laico" di Saddam) nelle file degli integralisti dell'Isis e milizie sciite fanatiche nemiche di Maliki.
Negli ultimi giorni l’attenzione della stampa e degli osservatori internazionali è tutta concentrata sull’Iraq. Più di una volta si è accennato alla ripresa del settarismo iracheno oppure alla riesplosione della storica rivalità tra sunniti e sciiti a livello globale. Di fatto, la situazione è molto più complessa e delicata ed è ben lungi dall’essere un mero conflitto a sfondo religioso. Nei giorni scorsi il presidente iracheno, lo sciita Nuri al-Maliki, ha accusato l’Arabia Saudita di finanziare i ribelli dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, a sua volta l’Arabia Saudita, nella fattispecie il Ministero dell’interno del Regno, ha preso le distanze da questi ultimi definendoli “terroristi”. Il 19 giugno il Ministro degli Esteri saudita suggeriva al presidente iracheno di prendere esempio dal Regno nella lotta per sradicare il terrorismo. Al contempo i Fratelli musulmani sunniti hanno emesso un comunicato, seppur smentito il giorno successivo, in cui dichiaravano il proprio sostegno ad al-Maliki.
E’ indubbio che la componente religiosa sia presente, ma come nel caso siriano serve a coprire obiettivi politici. Il 17 giugno il presidente iraniano Hasan al-Ruhani ha ribadito la propria determinazione a proteggere a tutti i costi i luoghi sacri sciiti ovvero i mausolei di Kerbela, Najaf, Kazimiyya e Samarra: “Avvertiamo le grandi potenze, i loro seguaci, gli assassini e i terroristi che il popolo iraniano farà tutto ciò che è nelle sue possibilità per proteggere questi luoghi”. Il 14 giugno scorso l’ayatollah iracheno Mortada al-Qazwini si è unito all’invito dell’ayatollah al-Sistani a imbracciare le armi per combattere contro lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS). Dal canto suo, il 16 giugno il Mufti d’Iraq, il sunnita Rafi’ al-Rifa’ ha attaccato al-Sistani accusandolo di omertà nei confronti delle violenze perpetrate a danni di sunniti nelle prigioni irachene e ha altresì giustificato la ribellione nei confronti del governo sciita.
Tuttavia anche a livello interno gli schieramenti non sono così netti come si potrebbe o si vorrebbe far credere. In modo particolare le etichette sunnita e sciita mirano semplicemente ad appiattire e livellare una realtà composita. L’analista iracheno Abd al-Khaliq Husayn ha pubblicato un articolo dal titolo eloquente “Sono tutti membri dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante e appartengono a un solo Baath” in cui illustra come tra le fila dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante vi siano anche ex membri del partito (laico) Baath di Saddam Hussein. Husayn descrive l’ideologia baathista come una “ideologia meticcia, uno strano miscuglio di nazismo tedesco, fascismo italiano, marxismo e spirito arabo beduino, e un pizzico di islam” e per questa ragione un’ideologia debole destinata ad allearsi nell’era post-saddamiana a chiunque conferisse loro forza e, beninteso, un miraggio di potere.
D’altronde la storia del partito Baath conferma le affermazioni di Husayn. Fondato nel 1940 da Michel Aflaq, un cristiano siriano che molti affermano si sia in seguito convertito all’islam, il movimento politico perde ben presto la connotazione laica e propone il legame indissolubile tra arabismo e islam. Il 5 aprile 1943 Aflaq pronuncia il discorso “In memoria dell’Inviato arabo” ovverosia Maometto. Qui afferma che “la relazione tra l’islam e l’arabismo non ha alcun tratto comune con la relazione di una qualsiasi altra religione al nazionalismo. Gli arabi cristiani, quando il nazionalismo si risveglierà totalmente in loro e quando ritorneranno alla loro vera natura, comprenderanno che l’islam per loro è la cultura nazionalista di cui devono impregnarsi per comprenderla, amarla per aspirare all’islam come a quanto di più caro nella loro arabicità”. Questa tendenza, questa aspirazione all’islam è stata confermata nel gennaio 1991, sempre per ragioni meramente politiche alla vigilia della prima guerra del Golfo, dall’inserimento da parte di Saddam sulla bandiera irachena dell’espressione “Allahu Akbar”, “Iddio è il più Grande”.
Alla presenza di ex baathisti tra i ranghi dell’ISIS, fa da contraltare, sempre con lo scopo di allontanare al-Maliki, Khudayr al-Murshidi, un altro ex baathista sciita, deputato al Parlamento iracheno dal 1996 al 2000, oggi rappresentante ufficiale del Fronte nazionale nazionalista islamico in Iraq.
Se il fronte “laico” si trova rappresentato su due fronti opposti, ma pur sempre in opposizione ad al-Maliki, anche le principali autorità sciite non hanno una visione comune e condivisa. Lo stesso ayatollah al-Sistani pur invitando al ricorso alla forza contro i terroristi dell’ISIS è noto per la propria opposizione al presidente in carica. Nel febbraio scorso Muqtada al-Sadr, leader del Movimento che reca il suo nome, e dell'Esercito del Mahdi, milizia da lui fondata nel giugno del 2003 per combattere le forze di occupazione in Iraq, ha definito al-Maliki “un dittatore e un tiranno”, mentre a seguito dell’attuale crisi ha descritto il governo di Baghdad come “una cricca di milizie”.
Tutto ciò illustra come sia impossibile ridurre la situazione attuale in Iraq, così come in Siria, al settarismo. Illustra come il terrorismo non sia solo in uno schieramento. Il 19 giugno Tariq al-Humayid in un editoriale pubblicato sul quotidiano Asharq al-awsat ha sottolineato che “la verità che bisogna ammettere è che l’ISIS terrorista è un modo di essere più che una setta; poiché nell’area mediorientale esiste l’ISIS del presidente, l’ISIS del Primo Ministro, l’ISIS del partito di Stato, così come esiste l’ISIS delle milizie armate che commettono tutti gli stessi crimini commessi oggi dall’ISIS in Iraq. Affermiamo che l’ISIS è un modo di essere e non una setta perché le azioni di Hezbollah, che ha i propri rappresentanti in senso al governo libanese, in Siria, al pari delle “Truppe della verità” (‘asa’ib al-haqq) sciite in Iraq e del “generale Abu Fadl al-‘Abbas” sono le stesse azioni dell’ISIS in Iraq.”
L’invito di al-Humayid ad andare aldilà delle apparenze, aldilà degli schieramenti per comprendere chi si schiera e combatte per il bene della nazione ricorda l’appello lanciato qualche giorno prima via Facebook dall’egiziano copto Magdi Khalil, presidente del Middle East Forum. Riflettendo sul presente egiziano giunge alla seguente conclusione: “Nel giorno in cui finiranno il wahhabismo, il khomeinismo, i Fratelli musulmani, i jihadisti e i salafiti, il mondo si libererà dal terrorismo, dalle condanne a morte per apostasia, dagli omicidi e dallo spargimento di sangue. Tutti costoro rappresentano un’unica realtà, tutti costoro hanno bevuto alla stessa fonte avvelenata, tutti costoro mirano allo stesso scopo con diverse modalità.” Ebbene, il messaggio di al-Humayid, musulmano, e di Khalil, cristiano, è chiaro non è il contenitore, l’apparenza a contare, bensì il contenuto. Il terrorismo è un fenomeno trasversale e nella fattispecie del mondo islamico lo si trova sia in ambito sunnita, sia in ambito sciita, sia in ambito laico-nazionalista. Il caso iracheno è paradigmatico e sta all’Occidente non cadere nella trappola di schierarsi in modo netto, di ridurre quanto sta accadendo a settarismo. L’Iraq in particolare e il mondo islamico in generale non sono riducibili a blocchi, a compartimenti stagni, bensì sono una distesa immensa di sfumature nel bene e nel male. Sinora si è cercato il male minore a livello internazionale a scapito dei cittadini, sarebbe il momento di ribaltare le priorità e pensare alle persone in prima istanza che sono le prime vittime del terrorismo e dei dittatori.