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Intervista/Ricci

«Io, psicologo, nel mirino perché difendo la famiglia»

Aveva detto in tv che un figlio ha bisogno di un padre e una madre, ha subito un processo di oltre tre anni dall'Ordine degli psicologi.

Gender Watch 30_03_2019

Chi afferma che la violenta campagna d’odio in atto contro la famiglia naturale sia conseguenza del modo in cui gli organizzatori hanno concepito l’evento del Congresso mondiale delle famiglie, che inizia oggi a Verona, farebbe bene a guardare alla vicenda del dottor Giancarlo Ricci, psicoterapeuta e psicanalista di chiara fama. La scorsa settimana i media hanno riportato la notizia che è stato “assolto” dall’Ordine degli psicologi dopo 3 anni e due mesi di procedimenti per aver sostenuto in una trasmissione tv che «i figli hanno bisogno di un padre e di una madre» e aver criticato l’ideologia gender. Tutto bene quel che finisce bene, dunque? Mica tanto. Perché quella appena superata è una battaglia – peraltro senza una assoluzione piena – ma la guerra è più viva che mai.

Cominciamo dalla battaglia appena conclusasi, cosa c’è che non va dottor Ricci?
Ovviamente sono contento della assoluzione, anche se nella delibera si usa il termine improprio di “archiviazione”. Ma a parte questo non può sfuggire che i voti siano stati 7 contro 7 e l’assoluzione non riguarda tanto la legittimità del mio pensiero, quanto il riconoscimento del fatto che avendo avuto a disposizione nel programma incriminato appena 200 secondi su un totale di 40 minuti di trasmissione, non era possibile spiegare compiutamente certe affermazioni dal punto di vista scientifico.

Dice infatti la delibera che «pur permanendo irrinunciabili perplessità in ordine a orientamenti dottrinali e scenari metodologici a cui le affermazioni del dott. Ricci potrebbero voler fare riferimento» è però impossibile «poter affermare oltre ogni ragionevole dubbio che tale diretto collegamento vi sia».
Esatto, è un’assoluzione per insufficienza di prove, come se gli argomenti dell’avvocato e le mie dichiarazioni, sui punti contestati, non fossero servite a nulla. Dei tre capi d’accusa che mi sono stati contestati non c’è traccia nella delibera, come se fosse un tutt’uno per il quale non sono riuscito a convincere la commissione. Ma la giustizia fosse convincere, è constatare una realtà. Ecco, qui possiamo davvero vedere come funzionano le istituzioni oggi: una modalità di controllo e una modalità di gestire la libertà in un modo politico.

È quello che lei sostiene nel libro che ha scritto come riflessione sulla sua vicenda, “Il tempo della postlibertà” (SugarCo edizioni).
Sì, questo è il modo in cui oggi agiscono queste ideologie, tanto più quella più eclatante che è la visione gender che si pone in nome dei diritti dell’uomo, quindi inviolabile e intoccabile: e in nome dei diritti dell’uomo si deve avanzare per la costruzione di un nuovo concetto di sessualità, che ha delle implicazioni sociali, che ha dei tornaconti sociali ed economici, di gestione geopolitica della società. La mia vicenda microscopica in fondo rivela un fenomeno molto più ampio.

Il sottotitolo del suo libro è “Destino e responsabilità in psicoanalisi”…
Questo sottotitolo indica che tutto il dibattito che c’è attorno al destino della civiltà, del pianeta, del consumo di energie riguarda la tessitura di un destino accanto a quello dell’uomo. Noi possiamo vivere e sopravvivere se il pianeta vive, si dice, e a fianco c’è questo tema della responsabilità. Ovvero chi si assume la responsabilità di gestire alla lunga queste tematiche, in termini sociali ma anche individuali. Gli antichi parlavano del foro interno, del foro della coscienza. Vale a dire che vediamo come, facendosi illudere di essere libero, ciascuno rinuncia alla propria coscienza, alla propria soggettività e alla costruzione di un proprio percorso, spirituale, intellettuale, di pensiero autonomo.

Torniamo al suo “processo”. È curioso che nella delibera si dica che non si può risalire con esattezza a cosa intendesse con le affermazioni fatte in trasmissione. Con tutti i libri e i saggi che lei ha scritto non dovrebbe essere difficile conoscere il suo pensiero.
Chiaramente l’avvio di un procedimento disciplinare è un atto di intimidazione. Per tre anni e due mesi sono stato sotto la dicitura dell’incolpato. E questo appena concluso è soltanto un episodio di una guerra molto più vasta, c’è un vero e proprio stalkeraggio nei miei confronti da dieci anni a questa parte. Il primo esposto contro di me è del 2009, poi un secondo nel 2012. Entrambi sono stati archiviati. Poi c’è questo, iniziato nel 2016 e per due mesi, con un atto di sadismo, mi è stata tenuta segreta la sentenza. Ora ci sono altri tre esposti pendenti, presentati nel 2017, 2018, 2019. Basta che chiunque legga una frase del mio libro o un articolo e ciascuno, psicologo e non, è libero di mandare un esposto. L’Ordine può archiviare o aprire il procedimento, ma intanto sono sempre sotto pressione.

A cosa si riferiscono i tre esposti che l’Ordine deve valutare?
Due di questi sono veramente biechi; c’è un anonimo che usa lo pseudonimo “galloverde”, che mi accusa di avere messo dei like su Facebook ai post di qualcuno; in un altro si cita una mia dichiarazione di sei anni fa a Repubblica, mi sembra in occasione di un convegno. Un vero sistema poliziesco. Peraltro in quest’ultimo caso l’Ordine degli psicologi avrebbe dovuto archiviare automaticamente perché dopo 5 anni c’è comunque la prescrizione, invece mi hanno comunque mandato la notifica. Sono chiaramente dei modi di intimidazione e di controllo. Sono psicologo, vado in una trasmissione tv, c’è la pretesa che esprima le posizioni contenute nelle linee guida dell’Ordine. È questa la postlibertà.

Colpendo lei che, comunque ha una carriera importante alle spalle, intimidiscono anche gli altri psicologi, soprattutto i più giovani.
Certo, è una minaccia per tutti. Non per niente ho ricevuto decine di messaggi di congratulazioni e di ringraziamenti da parte di moltissimi psicologi, soprattutto giovani, che temono ritorsioni da parte dell’Ordine.

Da quando è iniziato il suo procedimento, tre anni fa, ad oggi mi sembra che il clima sia peggiorato, basta vedere cosa sta accadendo intorno al Congresso mondiale delle famiglie di Verona
Rimango sbigottito riguardo al Congresso di Verona per quello che viene detto comunemente nei media, gli stessi da cui apprendiamo quotidianamente le notizie normali, più comuni. Una denigrazione gratuita, anche perché  poi vi si innesta la dialettica politica: se qualcuno parla di famiglia bisogna colpire necessariamente perché sono cattolici integralisti, schierati più o meno nel centrodestra. Ecco che torna il tema del destino e della responsabilità: un atteggiamento di questo genere abolisce la responsabilità e quindi il destino è in mano a chissà chi. Non c’è nessuna linea per sostenere quelli che una volta venivano chiamati i fondamentali, i capisaldi di una società. Se non ci sono quelli tutto vacilla, nessuno sa più dove andiamo. Siamo come i ciechi di Bruegel: uno tiene il braccio sulla spalla dell’altro, ciascuno è sicuro che l’altro guidi da qualche parte ma nessuno sa dove vanno.

Peraltro tutto questo si riflette sulle persone che poi vivono una sofferenza psichica e sono anche meno libere nel raccontare il proprio disagio quando su un argomento come quello dell’omosessualità c’è una forte ideologizzazione.
Certo, oggi moltissimi giovani si sentono confusi o avvertono una tendenza omosessuale spinti dalla propaganda martellante. Ci sono soprattutto due fenomeni ricorrenti: il primo riguarda giovani, anche 30enni, che arrivano dicendo che sono andati da diversi psicologi a cui hanno esposto il loro disagio, a cui è stato offerto soltanto l’aiuto a far sì di poter convivere con questa omosessualità. Questo è nell’ordine delle cose perché non dimentichiamo che a sua volta l’Ordine degli psicologi organizza convegni sulla gestione dei disturbi di orientamento di genere dove viene dato questo indirizzo. Qui non si tratta di poter promettere di tornare a praticare l’eterosessualità, ma è importante proporre un cammino per mettere in discussione questo disagio cercando di risalire all’origine, capirne la storia, come si manifesta.

E il secondo fenomeno?
Ragazzi più giovani, massimo ventenni, che si presentano pensando di avere tendenze omosessuali, che però non sono tali. Si tratta di debolezza di virilità, una insicurezza della propria identità virile, una paura verso il mondo delle donne, molto spesso provocata dalla pornografia, che fa sentire poco virili e attratti da quei ragazzi che sono l’immagine di come si vorrebbe essere. Questa non è omosessualità, è una situazione particolare legata a un percorso di crescita. Ma se un ragazzo di questo tipo incontra un altro che lo invita e lo spinge a provare, e viene immesso in circuito molto organizzato come è quello dell’associazionismo gay, lui si convince di essere gay e quindi assumerà quei valori politici rivendicativi, e quel disagio verrà riportato a una identità artificiale. Questo ha delle conseguenze pesanti, talvolta drammatiche. È un fenomeno che nel giro di pochi anni ha visto una grande crescita.

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