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INTERVISTA AL CAPPELLANO DI CREMONA

“Io, prete in trincea con la febbre in aiuto di malati e medici”

"Senza famigliari presenti, i malati ricoverati vivono relazioni assenti. Ci siamo noi". La Bussola incontra don Maurizio, il cappellano dell'ospedale di Cremona, nel cuore dell'emergenza da Coronavirus: "Ho la febbre, sto aspettando il tampone". Paura? "No, penso a quella nonna che mi aspetta in reparto e non sa che il marito è morto. Si muore soli: ho portato la benedizione a persone già defunte". "Però i medici sono eccezionali: sosteniamo anche loro". Pregare? "Senza sosta. Prego che Dio non ci abbandoni alla morte e alla desolazione".
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Attualità 14_03_2020

«Sto aspettando l’esito del tampone. Paura? Sono sereno, l’unico pensiero è ai malati che ho lasciato in corsia, spero che non siano morti. Vorrei tanto ritrovarli al mio ritorno». Sono le 16.30 di giovedì quando raggiungiamo al telefono don Maurizio Lucini, uno dei cappellani dell’ospedale di Cremona, nel cuore dell’emergenza da Coronavirus. Da martedì è nella sua camera. Isolato. «Ho sintomi influenzali sì, un po’ di febbriciattola e ho fatto il tampone. Ora aspettiamo che arrivi l’esito».

Anche agli altri due confratelli rimasti in ospedale sono stati fatti gli esami, ma non hanno sintomi.  La storia dei cappellani di Cremona, l’ospedale della troupe in terapia intensiva di Presadiretta e della testimonianza delle due coraggiose infermiere allo stremo, l'ospedale dove in una camera lotta anche il vescovo diocesano Antonio Napolioni, è anche la storia di preti di trincea che restano accanto ai malati e ai medici più che possono e che mettono in conto ogni giorno di potersi ammalare. Don Maurizio si confida alla Nuova BQ raccontando il dramma di questi giorni.

Il lavoro è aumentato?
Stiamo facendo il possibile andando anche in quei reparti dove ci sono i malati di Covid-19. Ma non sempre possiamo entrare.

In terapia intensiva entrate?
No. In terapia intensiva è entrato un mio confratello che era stato chiamato per un Olio, era per un paziente Covid. Lì non possiamo essere assiduamente presenti, ma nel caso in cui fossimo chiamati andremmo con tutte le cautele necessarie.

Guanti e mascherine speciali?
Sì. E camici. Purtroppo, il materiale non è sempre disponibile, quindi non possiamo entrare.

Negli altri reparti trovate malati contagiati?
Si, se possiamo li raggiungiamo ben “attrezzati” come gli operatori sanitari. Sappiamo che non dobbiamo abusare di queste protezioni perché potrebbero venire a mancare per gli operatori sanitari. Molti reparti sono stati riconvertiti alla cura del Coronavirus.

I malati vi cercano?
Qualcuno sì, qualcun altro ha bisogno di una parola. Con la mancanza dei famigliari questi malati vivono con ridottissime relazioni umane. Ci siamo noi.

Dovete fare un po’ da famigliari?
Sì. Penso a una signora che ho lasciato in corsia e non so se troverò al mio ritorno. Sto pregando per lei.

Perché?
E’ entrata in ospedale col marito. Lui è morto da poco, ma a lei non l’hanno detto. L’altro giorno aveva voglia di vedere la nuora e i nipoti. E’ stato molto doloroso non poterle dire la verità.

Che cosa ha fatto?
Ho preso il telefono e ho imbastito una piccola “video telefonata”. Ha visto le bambine. Si è commossa. E’ stata felice. Questa è una tragedia che divide le famiglie.  

E lei don Maurizio ha paura?
No, sono sereno. A parte questa febbriciattola… però sono fiducioso nelle terapie che fanno.

Come muore la gente?
Spesso sola. Ho portato la benedizione a persone già decedute.

E i medici?
Il tempo è poco, ma ci fermano, si sfogano, piangono, chiedono preghiere. Sono persone eccezionali, stiamo dedicando molte attenzioni a loro.

Sono tutti credenti?
Non arriviamo a rapporti così profondi, ci si incrocia. Chiedono uno sguardo di paterna bontà su di loro. Se questo per molti significhi anche l’inizio di un cammino me lo auguro, ma per il momento basta così.

Che cosa dice a un malato quando entra in stanza?
Anche lì il tempo è poco, gli ammalati faticano ad esprimersi, hanno le maschere per l’ossigeno, non si riesce ad ascoltarli. Allora preghiamo insieme, il più delle volte parlo io. E do loro una benedizione.

I camilliani avevano come carisma quello di andare proprio dai malati contagiosi. Lei dove trova la forza?
Ho scoperto questo carisma quando il vescovo mi ha chiesto di seguire i malati. Sono un prete diocesano e quando il vescovo mi ha chiesto di occuparmi dei malati mi si è aperta una bellissima realtà.

Si, ma la sofferenza?
Sì ma… vuoi mettere l’umanità?

Che preghiera la conforta di più in questi giorni?
Le preghiere dei Salmi sono molto azzeccate in questi giorni: “Signore mostrami il tuo volto”, “non abbandonarmi nella morte e nella desolazione”. Sono parole che hanno un sapore diverso oggi.

E’ difficile accettare questa malattia che ti riprogramma la vita in un batter d’occhio?
La malattia è sempre così.

Si dice spesso che i più problematici siano i pazienti anziani…
Si, ma qua vedo anche dei giovani.

Chi sono?
Non chiediamo se hanno anche altre patologie, nel loro cuore riesco solo a leggere una domanda di senso. Oltre alla salvezza vorrei auguragli di compiere una ricerca, un percorso alla ricerca di questo senso.

Che cosa farà non appena finirà tutto questo?
Spero solo di tornare ad occuparmi degli ammalati. Loro ci saranno sempre.

-IL VIAGGIO DELLA BUSSOLA TRA I CAPPELLANI