Invictus: grazie a Dio per la nostra anima invincibile
La vacanza dai banchi di scuola è l’occasione per scoprire o rivedere qualche buon film. Come il bellissimo film Invictus che Clint Eastwood ha dedicato alla figura di Nelson Mandela. Un inno di lode a Colui che ha messo in ciascuno quella scintilla di eterno che è l’anima, irriducibile, perché in qualsiasi situazione, anche nella sorte più avversa, non può essere resa schiava del potere.
La vacanza è l’occasione per scoprire o rivedere qualche buon film. Da anni conduco cineforum per ragazzi a scuola. Come si educa a leggere un libro, ad andare a teatro, a vedere l’opera, allo stesso modo, anzi più necessario ancora, è educare a vedere un film. Di solito, infatti, la realtà televisiva occupa maggiormente le giornate dei giovani. Per questo si deve imparare a cogliere e a conservare ciò che c’è di buono in una pellicola. Di quanti film, invece, non è rimasta traccia consapevole!
Il regista Clint Eastwood ha dedicato il bellissimo film Invictus (2009) alla figura di Nelson Mandela, incarcerato nel 1964, liberato l’11 febbraio 1990 ed eletto presidente del Sudafrica nel 1994, dopo aver conseguito il Premio Nobel della pace nel 1993 insieme F. de Clerk (presidente in quell’anno).
Finisce così l’apartheid per il Sudafrica che inizia un periodo di transizione ad uno Stato più democratico. Il film di Eastwood, adattamento del romanzo Ama il tuo nemico di John Carlin, apre una finestra sull’anno 1995, quando si svolge la Coppa del mondo di rugby proprio in Sudafrica.
Divenuto presidente, Mandela (interpretato da Morgan Freeman) imposta una nuova politica di pacificazione, di riconciliazione, di perdono. Rivolge le sue parole al popolo nero che ha combattuto per la fine della segregazione razziale:
Prendete i vostri fucili e gettateli nell’oceano. Mai e poi mai succederà che questa terra possa conoscere l’oppressione di una parte sull’altra.
Appena s’insedia Mandela dichiara allo staff del Presidente uscente:
Se state facendo i bagagli perché temete che crei dei problemi la persona per cui avete lavorato, non dovete temere. Il passato è passato. Noi guardiamo al futuro, adesso. Ci serve il vostro aiuto. Vogliamo il vostro aiuto. Se vi andasse di restare, voi rendereste al vostro paese un grande servizio. Tutto ciò che vi chiedo, è di fare il vostro lavoro col massimo dell'impegno e con partecipazione. Io prometto di fare lo stesso. Se riusciremo a fare questo, il nostro Paese sarà una grande luce nel mondo.
Da qui comincia il perdono che «libera l’animo e cancella la paura». Una grande occasione per il cambiamento, per una diversa convivenza tra i bianchi e i neri e per la riunificazione nazionale è offerta dalla Coppa del mondo di rugby. Mandela si oppone alla maggioranza dei membri dell’associazione nazionale di rugby che vorrebbero eliminare il simbolo degli Springboks che fino ad allora ha rappresentato l’apartheid:
Se portiamo via loro il rugby, li perderemo. Noi dobbiamo provare a non essere quello che essi temono. Noi dobbiamo sorprenderli con la compassione. È il momento di costruire la nazione.
Mandela non vuole considerare gli Afrikaners come nemici, ma come «fratelli nella democrazia».
Comprendendo l’importanza dei mondiali di rugby, Mandela incontra il capitano della squadra della nazionale, Pienaar (interpretato da Matt Damon), che gli chiede: «Come ha fatto a passare trent'anni in una minuscola cella e a perdonare quelli che ce l’avevano con lei?».
Da questo momento il presidente Mandela e il capitano della nazionale diventano i due protagonisti del film, legandosi in un rapporto di fiducia, d’amicizia e di stima reciproca.
In ogni scena del film Mandela colpisce per la sua attenzione agli altri o, meglio, ad ogni persona. Questo è l’aspetto saliente del personaggio su cui insiste il regista (non a caso il titolo originario del film doveva essere The human factor): Mandela chiede a tutti come stiano, li valorizza, li fa sentire importanti, prima della finale ha imparato a memoria il nome dei singoli giocatori e vuole stringere la mano a ciascuno. Il suo atteggiamento ricorda le parole pronunciate dal vecchio Cremete nell’Heautontimorumenos (Il punitore di se stesso) di Terenzio: «Sono uomo, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me».
Una guardia del corpo sottolinea il contrasto tra Mandela e il precedente presidente del Sudafrica: prima il compito delle guardie era quello di diventare invisibili, ora, invece, per Mandela nessuna persona è più invisibile. Nell’esercizio del comando Mandela, che considera particolarmente importanti il senso della responsabilità e la capacità di rischiare, cerca di trasmettere le due peculiarità anche alle persone che lo attorniano e, in particolar modo, al capitano Pienaar: «Tu hai un compito molto difficile, capitano della squadra».
Sentiamo questo bellissimo dialogo tra i due protagonisti del film:
Nelson Mandela: Qual è la tua filosofia della leadership? Tu come ispiri la tua squadra a dare il meglio?
François Pienaar: Con l'esempio. Ho sempre dato l'esempio per guidarli.
Nelson Mandela: Oh, questo è giusto, sì. Questo è sacrosanto. Ma come fare a renderli migliori di quanto loro credano di essere? È questo che io trovo difficile. Con l’ispirazione è possibile. Ma come facciamo a ispirarci alla grandezza quando niente di meno ci può bastare? Come facciamo a ispirare quelli che ci circondano? A volte io credo che la risposta sia nel lavoro di altri.
Prima della finale dei campionati mondiali Mandela conferma ai giocatori la sua fiducia in loro e fa loro capire che si aspetta il meglio, perché loro possono esprimerlo.
Fa comprendere al capitano che per compiere grandi azioni nella vita occorrono un’ispirazione e un ideale. A Robben Island, quando era in prigionia, Mandela trovava ispirazione nella poesia, in particolar modo nel componimento Invictus (da cui Eastwood mutua il titolo del film) di William Ernest Henley (1849-1903) che ha aiutato Mandela a non desistere nei momenti difficili:
Dalla notte che mi avvolge,
nera come la fossa dell'Inferno,
rendo grazie a qualunque Dio ci sia
per la mia anima invincibile.
La morsa feroce degli eventi
non m’ha tratto smorfia o grido.
Sferzata a sangue dalla sorte
non s’è piegata la mia testa.
Di là da questo luogo d’ira e di lacrime
si staglia solo l’orrore della fine.
Ma in faccia agli anni che minacciano,
sono e sarò sempre imperturbato.
Non importa quanto angusta sia la porta,
quanto impietosa la sentenza,
io sono il padrone del mio destino,
il capitano della mia anima.
La poesia è, forse, il più celebre componimento di Henley, che si ammalò a dodici anni di tubercolosi e che dovette subire pochi anni più tardi l’amputazione di una gamba. Lottò sempre, però, in maniera indefessa per i propri ideali e contro la malattia. Da cui deriva il titolo Invictus: la presenza dell’anima, che ci è stata donata da Dio, fa sì che l’uomo sia sempre il capitano del viaggio dell’esistenza, padrone del proprio destino. Non è un becero ottimismo, immemore dei colpi inferti dalla sorte, ma un pensiero frutto della consapevolezza che nessuno mai ci potrà strappare la profondità e l’abisso dell’anima.
La poesia Invictus non è un’irragionevole esaltazione di un uomo che si pone sul piedistallo come nuovo dio, ma una preghiera di gratitudine rivolta a Dio creatore, Colui che ha messo in ciascuno quella scintilla di eterno che è l’anima, irriducibile, perché in qualsiasi situazione, anche nella sorte più avversa, non può essere resa schiava del potere e del sistema (politico o economico che sia).
Nel film il regista non sottolinea le radici religiose di Mandela, anche se sono intuibili dagli atteggiamenti del personaggio. Sappiamo (da quanto scrive Mandela nel 1977) che partecipava «ancora a tutte le funzioni in chiesa». Nel 1993 scrive all’ex militante antiapartheid Ahmed Kathrada: «Condividere il sacramento (dell’eucaristia) che fa parte della tradizione della mia chiesa, era importante per me. Mi procurava sollievo e calma interiore. Uscendo dalle funzioni ero un uomo nuovo». E sottolinea: «Non ho mai abbandonato le mie credenze cristiane».
I due protagonisti del film, Nelson Mandela e il capitano Peenar, si muovono animati dal bene di tutti. L’insegnamento è grande: bisogna superare il proprio egoismo, per guardare ad un bene più grande, l’unico che possa davvero unire.
Lasciamo ai lettori la sorpresa di seguire le vicende agonistiche della Coppa del mondo di rugby del 1995.
Riuscirà il Sudafrica a vincere la Coppa?