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Insegnanti in sciopero per difendere un disservizio

Facile prevedere che lo sciopero degli insegnanti, indetto per oggi, non risolverà i problemi che sono alla radice della crisi dell'educazione. Il disservizio continua finché la scuola sarà un monopolio di Stato. Gli scioperanti chiedono che resti tale, mentre vogliono ancora più assunzioni e meno merito. Sono difesi dagli studenti, loro vittime.

Educazione 05_05_2015
Sciopero contro la riforma Renzi

E’ purtroppo facile prevedere che lo “sciopero nazionale della scuola”, indetto oggi contro il progetto di legge governativo al riguardo,  metterà a tema i più diversi motivi contingenti di disagio salvo quello che sta alla radice del problema: ossia il disservizio strutturale cui non si potrà mai porre rimedio finché sussisterà il quasi monopolio statale della scuola. Nel manipolo oscuro di coloro che ci hanno portato fino a questo punto non ci sono  però soltanto Renzi e chi altro come lui si colloca nel scia del  progressismo autoritario  di matrice neo-illuminista. Vi rientrano pure di pieno diritto tutte quelle realtà per lo più cattoliche  della scuola e della società civile, in teoria impegnate per la libertà d’educazione, che negli ultimi decenni hanno sempre preferito il piatto di lenticchie di favori di breve respiro a un impegno intransigente per la rottura di tale monopolio.  

La scuola esiste ed ha motivo di esistere in quanto luogo di formazione di scolari e studenti; non in quanto via traversa per risolvere il problema della disoccupazione di masse di laureati con poche speranze di trovare un posto di lavoro altrove. Questo ovvio dato di fatto diventa invece un tabù innominabile nei Paesi in cui, come nel nostro, si è purtroppo imboccata la strada di tale quasi monopolio. La storia dimostra che nel tempo tutte le agenzie di “welfare” tendono a servire più gli interessi dei loro addetti che quelli dei loro utenti, tanto più che i primi trovano facilmente rappresentanza in forti sindacati mentre i secondi non si percepiscono come categoria e perciò non si sindacalizzano, o comunque non lo fanno in modo altrettanto efficace.

In quanto a capillarità e a forza non c’è confronto tra i sindacati dei lavoratori ospedalieri o degli insegnanti da un lato e dall’altro le organizzazioni  di rappresentanza dei degenti, o rispettivamente degli studenti e delle loro famiglie. Nel caso della scuola lo squilibrio è poi al massimo poiché risulta facile agli insegnanti più estremisti tirare molti studenti dalla loro parte.  Sono le scene (tristissime per chi se ne rende conto) che molto probabilmente i telegiornali ci faranno vedere oggi: quelle di studenti senz’arte né parte, e perciò destinati alla disoccupazione, che scendono in piazza a tutela del posto di lavoro ad ogni costo anche di quegli insegnanti dequalificati e incapaci che mal preparandoli li avviano senza scampo verso tale destino.  

Un contratto nazionale unico, un’enorme categoria indifferenziata composta tra docenti e non docenti di circa un milione di persone, nessun  meccanismo di controllo della qualità dell’insegnamento dopo l’entrata in ruolo, stipendi che aumentano solo per anzianità. L’entusiasmo dei sindacati storici per tale situazione è comprensibile. In un’economia che ha superato la fase del proletariato industriale, cui così bene si applicavano le ricette  a suo tempo elaborate da Marx e dai suoi, gli addetti alla scuola statale, opportunamente proletarizzati negli ultimi decenni, sono divenuti l’ultimo grande proletariato. Stando così le cose ai sindacati storici interessa una cosa sola: farli diventare sempre più tali.

Per questo devono crescere di numero e si deve impedire l’introduzione nella categoria di qualsiasi riconoscimento di merito. E più che mai occorre negare agli utenti (famiglie di scolari, studenti) qualsiasi verifica efficace della qualità del servizio. Solo garantendo uguali condizioni economiche e normative a prescindere dalla qualità del servizio prestato, infatti, una categoria proletarizzata resta compatta. Ciò in forza di un meccanismo perverso che piega i più capaci e per responsabili agli interessi dei meno capaci e meno responsabili.

Il governo si è già impegnato ad assumere 100 mila insegnanti precari, ossia il doppio del necessario. Il grande tema dello sciopero di oggi è che 50 mila assunzioni in eccesso non bastano.  Occorre pensare anche agli “idonei” rimasti ancora fuori, ossia altre 100 mila persone. Alla base di questa pretesa c’è evidentemente l’idea che la scuola statale deve produrre non tanto formazione per gli studenti quanto stipendi per gli insegnanti. Nessuno nega che quello dei docenti  precari sia un problema sociale e umano rilevante. Chi ci ha detto perentoriamente di volere una “buona scuola” dovrebbe però avere il coraggio di affrontarlo con programmi di riqualificazione e di orientamento verso altre attività adeguate alla loro preparazione piuttosto che con trovate del genere.

All’interno del trionfante statalismo, che resta l’incondizionato orizzonte entro il quale si muove, con la sua presunta riforma della scuola Renzi non tocca la  radice del problema, ma cerca di risolverlo introducendo elementi di managerialità da industria privata in una scuola  che continua a essere un mastodonte statale: dà infatti ai dirigenti scolastici (quelli che un tempo si chiamavano presidi) la possibilità di scegliere gli insegnanti per la loro scuola attingendo a un albo territoriale, e apre alla possibilità che i contribuenti possano destinare il “5 per mille” a singole scuole a loro scelta.  Tutto questo secondo Susanna Camusso, intervistata ieri da la Repubblica, “lede il diritto costituzionale della libertà di insegnamento” poiché affida a un singolo, il dirigente scolastico (…), la totale discrezionalità su chi debba insegnare o meno”.  In quanto poi alla prospettata facoltà ai contribuenti di destinare il 5 per mille a singole scuole, ciò secondo lei sarebbe un’ingiustizia a danno di scuole come quelle “di Scampia o dello Zen di Palermo”.  Qualcuno prova a immaginarsi come sarebbe l’economia italiana se venisse organizzata secondo criteri del genere: se cioè i lavoratori non venissero rimunerati in proporzione alle loro capacità e se i consumatori non fossero liberi di comprare i prodotti che giudicano migliori?

Concludendo domenica scorsa in mezzo ad accese contestazioni la festa dell’Unità a Bologna, Renzi ha prospettato l’eventualità che il dirigente scolastico non possa più decidere da solo ma debba avere anche il consenso del collegio docenti. Gli unici grandi assenti sia dal progetto governativo che dalle controproposte restano invece gli unici veri titolari del servizio scolastico ossia le famiglie degli scolari e gli studenti. Nel manipolo oscuro di coloro che ci hanno portato fino a questo punto non rientrano però soltanto – dicevamo – Renzi e gli altri come lui.